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No al Referendum da giovani e Sud: la collera sociale si riversa nelle urne

A certificarlo sono le indagini di voto che in queste settimane intasano ossessivamente le redazioni dei giornali da cui, a stretto giro di posta, ripartono rovesciando i risultati sui tavoli disordinati dell'informazione: le fasce sociali che vivono, per qualsiasi motivo, in condizioni di difficoltà sono orientate a votare No al referendum in programma il prossimo 4 dicembre. Un vero e proprio ribaltamento di senso rispetto a quello che, in linea puramente teorica, dovrebbe essere: logica vorrebbe, infatti, che chi resta indietro nella giungla della competizione sociale sia più propenso a modificare l'assetto esistente nel quale è ingabbiato. Al contrario, coloro che ne beneficiano più degli altri, dovrebbero puntare le carte, di cui dispongono in abbondanza, sulla strenua difesa dell'architettura istituzionale dentro la quale hanno dimostrato di essere abili a muoversi. Se l'esito che emerge dai sondaggi fotografa una realtà diametralmente opposta, sarebbe il caso, da parte di promotori e sostenitori del quesito referendario in oggetto, di porsi domande decisive per il futuro del Paese. Pur non volendo impiccarsi al risultato delle osservazioni condotte dai vari istituti, infatti, appare indicativo che la popolazione giovanile, in maggioranza, manifesti la volontà di recarsi ai seggi per esprimere la propria opposizione alla riforma costituzionale architettata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e quella anziana, invece, sia mossa dal sentimento opposto: sposare le modifiche auspicate dall'Esecutivo. Il range che comprende gli italiani di età variabile tra i 18 ed i 44 anni, questo comunica il responso, è nettamente dominato dalla supremazia del No. Nel pianeta popolato dagli over 65 il Sì spadroneggia a vele spiegate. Analoga frattura, sia pure con percentuali diverse, si registra a livello geografico: a fronte di un Nord segnato da un sostanziale equilibrio tra le due differenti opzioni, il Sud sembra viaggiare in modo deciso verso un rifiuto sbattuto in faccia a Palazzo Chigi. Un quadro complessivo che conferma la politicizzazione della scelta, in assenza di qualsivoglia studio dei punti qualificanti la riforma. Le responsabilità, davanti ad uno scenario simile, non possono che essere ascritte, allo stesso premier. E' stato lui a lanciare originariamente la sfida da "all in" in una partita delicatissima con due sole squadre in campo: da una parte il Governo presieduto dallo stesso segretario nazionale del Partito Democratico, dall'altra il resto del mondo. A nulla è valsa la tardiva marcia indietro: ormai la polarizzazione nell'opinione pubblica si era concretizzata dispiegando i suoi effetti. Basti pensare che, paradossalmente, i singoli elementi caratterizzanti la polpa del referendum trovano un consenso maggioritario nell'elettorato. Ed è ancora più straniante che a ritrovarsi in una situazione del genere sia colui che aveva completato la bruciante ascesa al potere issando la bandiera della "rottamazione". Quel vessillo, evidentemente, non sventola più nelle desolate lande abitate dalla disperazione e, proprio perché disarmati sotto i colpi inferti dalla crisi, dalla mancata ripresa, dall'austerità, dalla stagnazione, dal sottosviluppo e dall'assenza di prospettive, gli "abitanti" dei "territori" devastati dal vento freddo del disincanto, prendono in mano le sole "lance" che possono raccattare a terra: quelle con la punta acuminata contenente il veleno della collera sociale e del risentimento verso l'ordine costituito. 

 


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