La Giornata della memoria non può essere un atto di facciata

Sei mesi, sei mila giorni. La noia altera le proporzioni,  e i minuti non sono più frazioni d’ora, ma elementi d’eternità. Inginocchiato sulla sabbia, lavo le secchie della minestra e guardo le mie mani. Dove sono le mani d’un tempo? Livide e scarnite, scoprono un gioco iroso di tendini e vene gonfie e contorte. Sopra la pelle s’è appiccata una minuta ragnatela d’unto, e il pollice e l’indice della sinistra hanno le punte nere, abbrustolite dalle cicche disperate….Sei mesi, seimila giorni. Nel mio calendario si allineano i giorni morti:ogni giorno che passa lo cancello con una crocetta a lapis, e ripenso agli anni disperati del collegio, ai mesi cupi della scuola militare. Anche allora tracciavo una crocetta su ogni giorno che passava. Ma allora sapevo che dovevano essere cinque lunghi anni…Qui non so niente. Qui è come gettare secchie di cemento in una buca di terra. Quante secchie per colmarla? Soltanto una o ancora diecimila?...Nella luminosa fissità del mezzogiorno, sotto il cielo senza colore, in mezzo alla inflessibile geometria delle baracche e allo squallore della sabbia, la disperazione non è più della terra, ma incombe nell’aria e si espande nel vuoto di questa vita deserta. E gli uomini chiusi nel recinto la respirano tutti, e la disperazione di uno diventa incubo di tutti. Disperazione, non dolore, non angoscia”.

È la testimonianza di Giovanni Guareschi nel suo Diario clandestino. Una delle tante, tantissime testimonianze che ci sono pervenute da laggiù, dall’inferno dei campi della lunga sofferenza degli internati ebrei, italiani, polacchi e altri nei campi di prigionia tedeschi dal 1943 al 1945. La lunga sofferenza e poi…anche l’atroce morte. Non dimentichiamola, anche noi che non l’abbiamo vissuta, per fortuna, ma solo letta. Perché richiamarsi alla memoria storica riconduce al cammino del proprio Io, al fine di verificare, quotidianamente, quello che vale la pena di vivere e utilizzare e quello che è da rigettare.

Questo esige, giustamente, la “Giornata della memoria”, introdotta in Italia con la legge 211 del 20 luglio 2000, che, vista in questi termini, assume una connotazione più rispondente alle esigenze etiche della persona. Così, il ricordo dei sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti nei campi di Auschwitz, di Treblinka, Sobibor e di altre località, prende la forma di una solennità corale, che finalizza il nostro quotidiano a respingere definitivamente la violenza, per immergerci nel tempo del perdono e della pace.

È memoria storica, certo, ma non un tabù, un qualcosa di fermo per sempre su cui stendere il nostro pietoso velo. No, è dinamica, è il punto da cui discende la necessità di cambiare registro nei nostri comportamenti, modificare in meglio il nostro stile di vita, se si vuole essere protagonisti del tempo della pace. Tempo che pretende verità, giustizia, amore e libertà e non è facile. Infatti sono motivazioni che non hanno trovato  accoglienza dovuta nelle istituzioni e nelle sedi di consesso internazionale, quale l’ONU. Si fa fatica a farlo. Ci vuole di più.

E allora celebrare la “Giornata della memoria” non può ridursi ad un atto di facciata, senza alcuna attenzione verso i problemi che ci accerchiano tragicamente ogni giorno e da ogni latitudine.

È giusto riflettere sulla persecuzione degli ebrei dell’ultimo conflitto mondiale. Ma non basta, tant’è che proprio sui luoghi di Mosè, Gesù e Maometto l’olocausto è pratica continua e per gli ebrei, e per i palestinesi e per i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà.

E se si guarda, poi, all’Irak, alle Torri gemelle di New York, all’esodo dei Curdi, alle minacce della Corea del Nord, alla Somalia povera che più povera non si può, all’India, agli extracomunitari delle nostre coste e così via, allora si comprende che se la “Giornata della memoria” non dovesse andare oltre Auschitz, resterebbe solo un giorno di fiumi di parole. Scriveva il poeta Rosario Bevilacqua:” È ora di voltare pagina. Il miglior  modo per le vittorie di quei morti è di certo il bene futuro dei vivi”.

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