Antimafia, Lanzetta: "Ho ripercorso la mia storia"

“Ho ripercorso la mia storia”. Queste le laconiche dichiarazioni rilasciate, ai cronisti, dall’ex ministro Lanzetta, al termine dell’audizione davanti alla Commissione antimafia. Da quanto è stato possibile apprendere, l’organismo parlamentare presieduto dal Rosy Bindi, ha sentito l’ex ministro in merito alla sua rinuncia ad entrare a far parte dell’esecutivo regionale guidato da Mario Oliverio. Una scelta motivata con la presenza in giunta di Nino De Gaetano, entrato nell’occhio del ciclone a causa di presunte vicende di voto di scambio. L’ex ministro avrebbe, inoltre, fatto un excursus sulle minacce ricevute quando era sindaco di Monasterace. Secondo alcune indiscrezioni, tra l’ex Ministro ed alcuni componenti della Commissione ci sarebbero stati veri e propri momenti di “tensione”.

Tallini (Fi): La Lanzetta liquidata con cinismo

“Le forti e circostanziate accuse lanciate dall’ex ministro Lanzetta al Pd calabrese devono fare riflettere tutti. Ma soprattutto devono fare riflettere le violente e velenose risposte che sono venute dai vertici del Pd nei confronti di una persona che solo un mese fa faceva parte del tanto osannato Governo Renzi”. E’ l’opinione del consigliere regionale Mimmo Tallini (Fi), che sottolinea come “La Lanzetta sia passata, nel giro di poche ore, da ‘apprezzata ministra della Repubblica’ a ‘stalker’ dell’assessore De Gaetano, da simbolo dell’antimafia a sindaco che ha portato al dissesto il Comune di Monasterace. Pippo Civati l’aveva inserita nel suo ‘pantheon’ ideale, indicandola come una personalità da additare come esempio di moralità e coraggio, ma per i cinque segretari provinciali del PD è solo ‘una che non può dare lezioni di moralità a chicchessia’”. Per Tallini: “Il cinismo con cui è stata liquidata l’ex ministra lascia senza parole, ma conferma che il Pd calabrese è attraversato da una guerra tribale che sta condannando alla paralisi e all’isolamento la nostra terra. Che quella di Oliverio sia stata una finta rivoluzione ormai lo sanno tutti. La Lanzetta si è limitata solo a certificarlo. In tre mesi, non è riuscito nemmeno a dare una Giunta alla Calabria, cosa inaudita e mai avvenuta nella storia del regionalismo. Emerge - afferma Tallini - l’incapacità di affrontare le emergenze, come dimostra la tragica fine a cui è stata condannata la Fondazione Campanella. Mentre gli ospedali scoppiano, il Presidente fa il braccio di ferro con il ministro Lorenzin per essere nominato commissario della sanità, dimostrando un attaccamento al potere senza precedenti. Non c’è traccia di un provvedimento, di un progetto, di un’idea. La Lanzetta, che magari avrà portato al dissesto Monasterace e che probabilmente non ha lasciato traccia al Ministero degli Affari Regionali, un merito l’ha comunque avuto e i calabresi dovranno essergliene grati: ha mostrato a tutti di che pasta è fatto chi dovrebbe governare la Calabria. Noi, pur da avversari - conclude Mimmo Tallini - le dobbiamo dare atto di essere stata coerente e di avere mantenuto fede alle sue dimissioni da ministro e da assessore regionale, caso veramente raro in un Paese come l’Italia dove le dimissioni soltanto si annunciano”.

Il Caso Lanzetta e le amnesie del Pd

E’ riesploso come un fulmine, su un cielo tutt’altro che sereno, il caso “Lanzetta”. La farmacista diventata ministro, prima di diventare, anzi no, assessore della giunta Oliverio. Sono arcinote le ragioni per le quali l’ex sindaco di Monasterace ha declinato l’invito a far parte del governo regionale. Nel ribadirle, l’altro ieri, in un lungo ed articolato comunicato, ha voluto citare Pasolini: "la mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza". Una frase lapidaria, dalla quale traspaiono rabbia ed amarezza. Osservato, qualche giorno di ritirata strategica, la Lanzetta ha, quindi, deciso di passare al contrattacco per lanciare un duro j’accuse ai vertici del Pd calabrese. Forte di quel comunicato diramato, nel bel mezzo della buriana, da Palazzo Chigi, nel quale si leggeva che la vicenda De Gaetano non era “sufficientemente chiarita”, l’ex ministro ha deciso di sparare a palle incatenate per colpire nel mucchio. La reazione, altrettanto dura, è stata affidata ai cinque segretari provinciali calabresi che, in una nota congiunta, hanno replicato a muso duro. Una replica, il cui contenuto segue, sorprendentemente, il canovaccio di un lungo articolo apparso, un anno fa, sul settimanale “Panorama”, con il titolo: “I misteri del ministro Lanzetta”. Cosa ci fosse di misterioso nella carriera politica dell’allora ministro, il giornalista lo chiariva, facendo riferimento esplicito a “Francesco Antonio Siciliano”, ovvero il vice dell’allora sindaco di Monasterace, “ genero di Vincenzo Ruga, condannato in via definitiva per associazione mafiosa e considerato il boss dell’omonima cosca della Locride, combattuta tenacemente negli anni scorsi dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria guidata da Giuseppe Pignatone (ora procuratore a Roma) e dal suo aggiunto Nicola Gratteri”. Significativo, anche, il passaggio successivo nel quale si legge: “Ma la vera débâcle di Lanzetta pare riguardare la sua gestione economica di Monasterace. La Corte dei conti della Calabria, con due diverse delibere, ha infatti certificato il default del comune”. Or bene, i cinque segretari provinciali, con riferimento all’ex sindaco di Monasterace, nella loro replica, scrivono: “la composizione della sua passata giunta comunale non le consente assolutamente di dare lezioni di moralità a chicchessia”. Non meno caustico il giudizio espresso sull’operato amministrativo, laddove si legge: “a Monasterace la ricordano come il sindaco che ha portato il suo Comune al dissesto economico e finanziario”. Dichiarazioni forti che inducono ad una riflessione dalla quale scaturisce una serie di domande. Possibile che, solo adesso, i maggiorenti del Pd calabrese siano venuti a conoscenza dei rapporti parentali del vice dell’ex sindaco Lanzetta? Come e perché il Pd ha fatto diventare un’icona antimafia un sindaco che avrebbe nominato nella sua giunta nientemeno che il genero di un boss di ‘ndrangheta? Quando, unicamente, in ragione del suo essere ritenuta “vittima della mafia”, la Lanzetta ha scalato i vertici delle istituzioni, possibile che tra i componenti del Pd calabrese nessuno si sia ricordato della “composizione della sua giunta”? Tanto più che, apparentemente, l’unica ragione per la quale, da una farmacia di provincia, la Lanzetta è stata proiettata alla guida di un dicastero, va ricercata nella mancata nomina a via Arenula del giudice anti ‘ndrangheta Nicola Gratteri. Allora, per dare prova dell’impegno nel contrasto alla criminalità organizzata del nascente governo Renzi, il Pd ripiegò sull’ex sindaco di Monasterace del quale, nel 2012, Bersani aveva detto: “é sotto pressione e sotto ricatto delle mafie”. Se, come lasciano intendere i cinque segretari provinciali, la Lanzetta “non può dare lezioni di moralità” perché nella sua giunta, in posizione di vice, aveva nominato nientemeno che il genero di un boss, per quale motivo hanno taciuto finora, permettendo, con il loro silenzio, che diventasse simbolo di legalità e addirittura ministro? Venuta meno la specchiata attività anti mafia ed alla luce dei, poco lusinghieri, risultati amministrativi, che le attribuiscono, i segretari provinciali e con loro l’intero Pd dovrebbero spiegare agli italiani quali siano stati i meriti che hanno indotto il loro partito a nominarla ministro e, se non fosse stata lei a rinunciare, addirittura assessore nella giunta regionale che dovrebbe risollevare le sorti della Calabria.

  • Published in Diorama
Subscribe to this RSS feed