Trump e la dittatura dell'oligarchia

Sono tre le forme di governo storicamente più comuni. Senza scomodare i classici e praticando una semplificazione, le si può distinguere in: dittatura, oligarchia e democrazia. Fin dalle elementari  insegnano che la dittatura è il potere di un solo uomo, l’oligarchia il potere di una minoranza, la democrazia il potere di tutti.

Se ne deduce, quindi, che la democrazia dovrebbe rispecchiare la volontà della maggioranza.

Nelle democrazie moderne, le scelte si esprimono attraverso libere elezioni. Lo schema è piuttosto noto, ma di questi tempi molti sembrano averlo dimenticato. Il leader di un partito si candida e sottopone agli elettori un programma, ovvero un elenco di cose da fare.

I cittadini scelgono, quindi, chi propone ciò che vorrebbero fosse realizzato. Capita spesso, però, che dimentico del programma, il politico, una volta eletto, faccia tutt’altro. In Italia, di esempi del genere se ne potrebbero citare a iosa. Quanto la pratica sia diffusa lo dimostra il ricorso, sempre più frequente, al cosiddetto fact checking. L’analisi della corrispondenza tra ciò che si è detto e ciò che si è realizzato restituisce l’indice di affidabilità di un uomo politico.

Va da sé che chi non mantiene la parola data, in politica, come nella vita, dovrebbe veder scemare rapidamente la propria credibilità.

Tuttavia, può capitare esattamente l’opposto

È il caso, ad esempio, di Barack Obama la cui popolarità, a livello mediatico, è rimasta sempre immutata.

A suo beneficio, infatti, nonostante le tante promesse non mantenute, la fanfara del pensiero unico ha continuato ad intonare inni di giubilo.

All’estremo opposto, c’è invece Trump. Il neo presidente Usa è entrato stabilmente nel mirino dei cecchini del politicamente corretto. Ogniqualvolta firma un provvedimento, la consorteria radical chic lancia un peana.

Eppure, essere democratici dovrebbe voler dire rispettare il responso delle urne ed accettare, pur non condividendolo, il pensiero degli altri.

Ma, per i fautori della democrazia ad intermittenza, non sembra avere alcuna importanza il fatto che Trump abbia vinto le elezioni, non nel Medioevo, ma due mesi fa. Ancora meno importante, sembra essere la circostanza che stia mettendo in pratica le misure per cui è stato votato.

Ancorché in disaccordo con lui, gli epigoni della democrazia liberale dovrebbero rallegrarsi. Per costoro, un presidente che rispetta il sacro patto sottoscritto con gli elettori dovrebbe essere un esempio da citare.

Al contrario, si assiste alle quotidiane levate di scudi di un’oligarchia che, in nome della democrazia, vorrebbe imporre la dittatura della minoranza.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

Trump, la Russia e il Nuovo ordine mondiale

Con il solito tono professorale di chi non ne azzecca una, i giornalisti corrivi e gli osservatori distratti che non avevano capito nulla del fenomeno Trump, ci riprovano.

Dopo aver sbagliato tutte le previsioni formulate nel corso della campagna elettorale, chiunque, al loro posto, si sarebbe nascosto per sfuggire alla vergogna, ma loro no. Anzi, si ripresentano sulla ribalta, con la pretesa di voler spiegare agli altri ciò che non riescono a capire.

Così, continuando a produrre la loro partigiana e inconcludente informazione anti Trump, non si preoccupano di pronunciare idiozie sesquipedali. L’ultima perla è stata sciorinata pochi giorni addietro. A loro dire, il neo presidente non conosce la politica estera per poter sedere alla Casa Bianca.

Tralasciando il dato, non irrilevante, che neppure in passato (Obama in primis) i presidenti erano stati selezionati tra i ranghi della diplomazia. Tralasciando, pure, i danni prodotti in giro per il mondo dall’esperta coppia Obama – Hillary Clinton, viene da chiedersi come sia possibile che giornalisti e sedicenti osservatori non facciano uno sforzo, non per capire, ma quanto meno per cercare di trovare una spiegazione a ciò che potrebbe succedere a breve.

Non condividere, beninteso, semplicemente analizzare e capire.

Una delle tante colpe imputate a Trump è l’attenzione verso la Russia. Un’attenzione che, in fin dei conti, potrebbe essere frutto di calcolato pragmatismo.

Fin dalle prime uscite ufficiali, il neo inquilino della Casa Bianca ha confermato ciò che aveva ripetuto in campagna elettorale. Nella sua visione, gli Usa devono riacquistare in tutti gli ambiti la centralità perduta.

Per raggiungere l’obiettivo sa che deve mettere mano alla politica estera. Non è un caso che tra i primissimi provvedimenti figuri il ritiro dal Tpp, peraltro non ancora ratificato dal Congresso. Con una firma, Trump ha definitivamente affossato l’accordo di libero scambio transpacifico.

Nell’ambito della politica internazionale, l’America si muove su un terreno minato. Il lascito di Obama è disastroso (ne abbiamo parlato qui).

I problemi sul campo sono piuttosto complessi ed in alcuni casi rappresentano la conseguenza della caduta del muro di Berlino.

A partire dagli anni Novanta, gli Stati Uniti hanno, infatti, avviato la stagione dell’unilateralismo. La fine della storia vaticinata da Fukuyama ha assunto, però, una piega diversa. Così, l’idea di poter governare in solitudine il mondo si è scontrata con la realtà.

Viepiù che le sfide lanciate da più parti, nel corso degli anni si sono moltiplicate.

Soprattutto in Iraq e Afghanistan, gli Usa hanno misurato sulla loro pelle quanto sia difficile esercitare il ruolo di unica grande potenza. Ne è conseguito che, dopo le avventate gesta belliche volute da Bush, l’America si è scoperta restia a mettere gli scarponi sul terreno.

In un mondo in cui i conflitti tendono a dilatarsi, Trump sa di avere bisogno di “alleati” desiderosi e capaci di condividere il fardello delle responsabilità.

Nello scenario attuale, più che una strada possibile, la Russia rappresenta l’unica percorribile.

L’Europa dei mercati è, infatti, poco meno di un gigante riluttante, incapace di difendere se stessa, figurarsi gli altri. Reso pusillanime da settant’anni di benessere garantito dalle baionette americane, il Vecchio Continente non ha lo spessore politico per proporsi come attore globale.

In Estremo Oriente, l’ascesa economia della Cina ha gettato le premesse per un futuro attrito. In maniera discreta, Pechino ha iniziato a costruire le basi per trasformare l’attuale potere finanziario in supremazia geopolitica.  I cinesi hanno già trasformato l’Africa nel loro supermercato. In Australia sono diventati il secondo gruppo etnico più numeroso . Nel Pacifico, invece, hanno ampliato il loro orizzonte con la costruzione delle isole artificiali nel Mar Cinese meridionali.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

In Medio Oriente, infine, Obama ha incendiato la polveriera sulla quale era seduto. Con l’intera area infiammata da guerre e conflitti latenti, la situazione rischia di finire fuori controllo. Per ricomporre i cocci, Trump ha bisogno di un alleato militarmente attrezzato che non teme si gettarsi nella mischia.

Nella strategia di The Donald, la Russia rappresenta giocoforza l’unico alleato possibile.

Dalla sua, Mosca ha la tradizione, la vocazione, la proiezione strategica e la capacità pratica di prendere parte alla costruzione del Nuovo ordine mondiale.

Per tenere in piedi la loro traballante supremazia, gli Usa hanno bisogno di una solida stampella. In tal senso, nel breve periodo, la Russia di Putin può aiutare Trump a pacificare il Medio Oriente. Nel lungo termine, invece, può coprire il vuoto politico rappresentato dall’Europa e tenere in ambasce la Cina, distraendola da eventuali tentazioni imperiali.

Nelle intenzioni di Trump, molto probabilmente Usa e Russia dovrebbero, candidarsi a rimettere in ordine il mondo. Lo scopo, neppure troppo celato, è impedire la nascita di ingovernabili linee di conflitto. Un accordo del genere rappresenterebbe la saldatura tra la talassocrazia americana e la tellurocrazia russa. Un accordo che potrebbe ridisegnare, non solo il mondo, ma anche la sua storia.

Obama - Trump e i poli estremi del pregiudizio

 Quando Obama fu eletto, gli diedero subito il Nobel per la pace, senza aspettare che facesse qualcosa per meritarselo. Poi ha fatto, sì, ma un mare di guerre, e anche maldestramente; ed ha oggettivamente favorito califfi e terroristi islamici.

 Ripeto ancora che il sedicente Premio Nobel per la pace NON ha niente a che vedere con i Nobel assegnati dall’Accademia di Svezia; ma è un’operazione di politicanti del parlamento della Norvegia. Lo ripeto perché la gente, se no, pensa sia un Nobel sul serio.

 Obama è la dimostrazione che “Non chi grida Signore Signore entrerà nel Regno dei cieli”: a sentire lui e compagni, sono un’inesauribile antologia di sante intenzioni, quasi tutte contraddette dai fatti. Solo che c’è una cultura parolaia che dà, appunto, importanza alle parole; e se uno parla di pace pensa che faccia la pace. Chiedetelo a Libia, Iraq, Siria, cosa ne pensino della pace di Obama… e ai tentativi di Obama di provocare alla guerra la Russia. Il primo atto di Trump sarà incontrarsi con Putin: chi dei due cerca la pace?

 Le donne? Trump ha poco rispetto per la castità delle donne? Beh, almeno non lo fa alla Casa Bianca, e nel ben noto modo preferito da Clinton marito sotto gli occhi compiacenti della Clinton moglie. O vogliamo ricordare gli amori dei Kennedy?

Gli immigrati? Ma secondo voi c’è davvero qualcuno, in tutti gli Stati Uniti, che desidera un’inondazione di messicani? O, in Italia, di “profughi” e “minori non accompagnati” e ampiamente diciottenni?

 O qualcuno al mondo pensa che se un cantante è bravo a cantare (ammesso, e “de gustibus…”), io prenda in alcuna considerazione il suo parere sulla letteratura greca o sulla presidenza degli Stati Uniti? Canti, si paghi, poi stia zitto.

 Ciò premesso, non è che io straveda per Trump: ma vogliamo concedergli i cento giorni canonici che non si negano a nessuno? Aspettiamo dunque almeno Pasqua, per giudicare. Giudicare dai fatti, non dalle chiacchiere.

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Gli hacker russi al tempo di Obama lo spione

La parte più difficile è uscire di scena. In teatro, come in politica, bisogna saper abbandonare il proscenio. Bisogna farlo in maniera discreta, senza che gli spettatori se ne accorgano. Chi lascia la ribalta non deve, mai, invadere lo spazio altrui. Una regola elementare che, in otto anni alla Casa Bianca, Barack Obama non ha ancora imparato.

Dopo due mandati costellati da disastri e fallimenti, il presidente Usa è rimasto, fino in fondo, coerente con il suo ruolo di guitto.

La sua scomposta ed imbarazzante uscita di scena è culminata, infatti, nell’espulsione di 35 diplomatici russi. A suo dire, presunti hacker che avrebbero violato la mail del Partito democratico. L’episodio, ancora una volta,  ha dato la misura della siderale distanza che lo separa da Putin.

Nella circostanza, il presidente russo sembra abbia voluto dire: ” non rispondo ad uno che sta facendo gli scatolini”.

Detto ciò, la vicenda rappresenta la cartina di tornasole dell’ipocrisia che ammorba gli epigoni del politicamente corretto.

La stizza di Obama, per quelli che, allo stato, sono solo presunti attacchi hacker, fa ridere i polli.

L’Obama che oggi s’indigna è, infatti, lo stesso che, da presidente, ha firmato il documento segreto “Direttiva politica presidenziale 20”.  Un documento con il quale ha autorizzato gli 007 ad usare strumenti cibernetici per identificare e attaccare obiettivi posti oltreoceano. Una decisione che ha permesso di trasformare la cyber intelligence statunitense, da difensiva, in ufficialmente offensiva.

A ciò si aggiungano il caso Snowden e il Datagate. Gli scandali scoppiati nel 2013 hanno permesso, infatti, di appurare la propensione di Obama ad origliare dietro qualunque porta.

Dai documenti, all’epoca, pubblicati dal Guardian, è emerso, infatti, che durante il mandato di Obama, gli Stati Uniti hanno controllato illegalmente le comunicazioni di tutto il mondo.

Obiettivo degli spioni Usa non sono stati soltanto gli avversari ed i nemici dichiarati. Nella rete allestita dalla Nsa (Agenzia per la sicurezza nazionale) sono finiti, anche, capi di Stato e di governo alleati. In particolare, l’agenzia avrebbe intercettato i telefoni personali di 35 leader politici stranieri, tra cui quello della cancelliera tedesca Angela Merkel.

Come, all’epoca, riportato dal Guardian e dal Washington Post, oggetto delle attenzioni dei servizi segreti americani furono, tra gli altri, ambasciate e consolati, le sedi della Nato, dell’Onu e dell’Ue, nonché l’allora segretario generale della Nazioni unite Ban Ki-moon.

Il fatto che proprio il presidente del Paese che ha allestito la più grande rete di spionaggio della storia pretenda ora d’interpretare la parte del campione della privacy, dà la misura di quanta ipocrisia permei l’azione degli anfitrioni del politicamente corretto.

Un’azione sostenuta da un sistema che teme solo le “post verità”, soprattutto quando svelano le menzogne.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

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"Hillary Clinton ha creato l'Isis con Obama"

"Hanno creato loro l'Isis. Hillary Clinton ha creato l'Isis con Obama". E` quanto ha affermato nel corso di un comizio elettorale, a Biloxi nel Mississippi, il candidato repubblicano Donald Trump. Il politico che ambisce a guidare gli Stati Uniti del dopo Obama ha accusanto l'amministrazione americana di aver fatto crescere lo Stato islamico non congelando gli asset legati al petrolio controllato dal gruppo.

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