E' la Calabria la regione in cui si uccide di più

E' la Calabria la regione d’Italia con il maggior numero di omicidi. A rivelarlo è l’Istat che nel rapporto annuale 2015 avrebbe rilevato, in Calabria, 2,44 omicidi ogni 100 mila abitanti, ovvero il triplo della media nazionale. Dalla parte opposta della graduatoria, la Valle d’Aosta (0) ed il Veneto (0,24). Per quanto riguarda, invece, la classifica delle città più violente il primato spetta a Napoli e Bari,  dove sono stati registrati rispettivamente 3 e 2,5 omicidi volontari ogni 100 mila abitanti. Alta anche la percentuale di Palermo (1,5) e Catania (1,3).  A Milano ed a Roma, invece, e' stato commesso un delitto ogni 100mila abitanti, mentre Genova, Verona e Firenze, hanno fatto registrare tassi nell'ordine di 0,3-0,5 omicidi per 100 mila abitanti. Nel quinquennio 2009-2013, il numero degli omicidi è diminuito a Genova e Catania Milano, Torino, Bologna, Roma e Napoli. Omicidi in aumento, invece, a Venezia, Palermo, Bari e Verona.

Stranieri in Calabria, ieri ed oggi

Per farla breve, Altomonte si chiamava Brahalla, e una fontana di Brahallà si trova a Filadelfia, dove il “ballo dei ciuccio” si chiama del cammello, come nel Reggino; diffusissimi sono i cognomi Marrapodi, Mauro, Morabito, Negri, Neri, Sgro. Ci sono poi tantissimi Baldari, Biondo, Gualtieri, Guiscardi (Viscardi), Ranieri, Ruggero, Russo, Tedesco… significanti in qualche modo un’origine germanica.  E che dire dei molti immigrati che vennero per lavorare? Minatori del Bresciano, donde i cognomi Brescia, Bressi, Brizzi… ma anche Lungo, che denunzia persino una provenienza ungherese; e Fransè e simili. Do per conosciutissimi gli Albanesi, sia quelli che conservano lingua e identità, sia i molti in paesi non più conservativi.  E quanti Greci bizantini, denunziati da palesi cognomi: per vanagloria, cito solo Nisticò; ma sono migliaia! Come arrivarono, o per meglio dire arrivammo, qua da noi? Come contadini soldati inviati dagli imperatori d’Oriente; come invasori arabi, e più spesso come “baziarioti”, mercanti; schiavi; prigionieri di guerra come quelli di Schiavonea e di Plaga Sclavonum, Praia… in qualsiasi modo tutti costoro venuti, compresi i miei avi, ora siamo tutti calabresi. Dove voglio portarvi, pazienti lettori? Mi sono forse improvvisamente convertito all’immigrazione? Certo che no, e con fondati motivi: il primo è proprio che tutti quegli stranieri, compresi i miei avi, arrivarono da ogni dove, ma vennero assimilati. Anche il più musulmano dei pirati barbareschi, anche il più burbanzoso spadaccino longobardo, dopo un poco diventarono cattolici, sposarono donne di altra stirpe ma sempre cattoliche, impararono la lingua e i dialetti, e dopo due generazioni non volevano più sapere della lontana Scania o di qualche deserto d’Egitto. Qualche anno dopo, ecco un calabrese di pelle scura o lattea o entrambe, ma sempre e solo un calabrese.  Oggi la Calabria, come del resto l’Europa, si rivela del tutto incapace di assimilare e acculturare, soprattutto perché non ha più forte l’arma della religione, che è una specie di ridotta di Giarabub in eterna difesa. E così rischiamo il peggio che possa capitare: la società multietnica. Lo so che c’è chi pensa sia una cosa bella, ma proprio gli Stati Uniti multirazziali dimostrano il contrario: c’è una sola etnia, gli Stati Uniti; ce ne sono anche delle altre, ma considerate inevitabili emarginazioni cui sperare di porre rimedio e farle sparire prima possibile. Qui rischiamo un arlecchino di lingue e usi e mentalità e fedi che non può giovare a nessuno.

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In Calabria manca tutto, anche la politica

La politica sarebbe niente di meno che curarsi del bene comune; ora, io non pretendo che in Calabria si veda traccia di un così alto e complicato concetto; e qui mi contento di chiedermi se esista almeno la politica terra terra, cioè le ideologie, i partiti. Come ormai in tutta Italia, almeno provvisoriamente, in Calabria è vincente il PD. Vince, ma questo non sta a significare che esista; vince nel senso che raccoglie più voti del nulla, che, come diremo più avanti, è il centrodestra. Il PD calabrese è ancora più inconsistente e disorganizzato della situazione nazionale; è una specie di Democrazia Cristiana senza quei volponi di politicanti che la tenevano insieme. Il tutto aggravato dall’evidenza che nel PD la maggioranza non è renziana, donde l’impossibilità di Oliverio di nominare assessori e dirigenti. Figuratevi se un tale partito sommatoria, partito di saltati sul vincitore, è capace di progettare qualsiasi cosa, di affrontare un qualsiasi problema; e di spendere la valanga di soldi di fondi europei. Con l’aggravante intellettuali della presunzione, e mai l’umiltà di rivolgersi a chi sa. Dite voi, ma se il PD è così nullo, confidiamo nel centrodestra! Buono, quello: come se non avessimo visto i disastri di Pino Nisticò, Giovan Battista Caligiuri, Peppino Chiaravalloti, Peppe Scopelliti e i loro assessori e dirigenti di centrodestra. Questo per quanto concerne l’amministrazione; e che dire della politica intesa come pensiero? Ragazzi, pensiero? Con l’aggravante borghese della presunzione, e mai l’umiltà di rivolgersi a chi sa. Aggiungiamo che lo sparuto gruppo consiliare di Forza Italia ha due tizi che dicono di essere di Forza Italia ma Forza Italia non vuole: oggi le comiche. E siccome ognuno deve piangere prima i guai suoi, sappiamo qualcosa dei postfascisti postmissini postaennini? Nulla, notizie non pervenute. Allora, se non esistono più i fascisti (i comunisti ancora capaci di dichiararsi tali sono rimasti tre, forse); se il centrodestra è in stato comatoso; se il PD vince, ma non esiste, ciò premesso, chi pensa, in Calabria? A parte gli antimafia segue cena: quelli non hanno bisogno di pensare, ripetono le stesse identiche cose della cena.. volevo dire del convegno del mese prima. Non pensa nessuno, nei partiti. E fuori? Fuori dai partiti, cioè Università, Scuola, Chiesa, Società Civile, tutti muti per non dar fastidio al provvisorio vincitore.

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Ferdinandea, ascesa e declino di un sogno industriale

La Calabria, con le sue vestigia di un passato che spesso sembra non voler passare, racchiude nella parte più nascosta e misteriosa del suo seno luoghi, eventi, fatti, misfatti e circostanze che, pur avendone tratteggiato il destino, sembrano essersi definitivamente smarriti nel lento, ma sornione ed inesorabile divenire del tempo. Una regione fatta di storie senza storia, di racconti senza narratori, di romanzi senza romanzieri. Ciascuno conserva qualche episodio tramandato più della memoria orale che dal rigore scientifico degli amanti di Clio. E così a sopravvivere sono storie antiche, a volte remote, di cui si è perso però il pur minimo riferimento storico. I greci, gli arabi, i bizantini, i normanni, se non fosse per qualche toponimo e come se non ci fossero mai stati. I luoghi della memoria giacciono negletti, abbandonati, come se avessero la colpa di far ricordare un passato più incerto ma meno aleatorio del vuoto e grigio presente. In un contesto in cui alla memoria collettiva si è spesso sostituita l’immagine folcloristica da sagra paesana è sempre più difficile elaborare un processo storico condiviso in grado da fungere da volano turistico. Mentre altrove si scrivono storie, si rielabora il passato e si valorizzano territori, in Calabria, al contrario, si lascia agonizzare lentamente quel che di buono è scampato alla furia dei terremoti, all’impeto delle alluvioni, alle scorrerie di vecchi e nuovi predoni. Nella cuore di monte Pecoraro, da dove è possibile scorgere le increspature dello Jonio e le arsure della vallata dello Stilaro, sorge ancora quel che rimane di Ferdinandea. Un nome evocativo dal quale traspare inequivocabile l’origine Borbonica. Correva l’anno 1833 quando veniva inaugurato quello che molti, per troppo tempo, hanno erroneamente ritenuto il casino di caccia di re Ferdinando II. Al contrario, l’imponente realizzazione edificata nel bel mezzo della montagna, tra superpi abeti e faggi secolari, costituiva il nucleo secondario di una ferriera, succursale degli stabilimenti siderurgici di Mongiana. Nel corso della sue breve esistenza produttiva, Ferdinandea seguì inevitabilmente la stessa sorte toccata al ramo aziendale principale, costretto a chiudere subito dopo l’unità d’Italia. Il 27 agosto 1860 un contingente garibaldino circondava e requisiva gli stabilimenti siderurgici. Un evento che segnerà il “de profundis” per uno dei primati produttivi del sud Italia. I nuovi padroni, ben presto, si dimostrarono assai meno caritatevoli di quelli appena scalzati. Estinte le attività proto – industriali, Ferdinandea conoscerà il suo definitivo canto de cigno. Nel 1874 l’immensa tenuta diventava proprietà del garibaldino Achille Fazzari, che l’acquistava all’asta insieme agli stabilimenti di Mongiana ed a diversi beni accessori. Nel corso degli anni “don Achille” farà di Ferdinandea la sua ricca e lussuosa dimora, nella quale, tra gli altri, soggiorneranno il fondatore del “Il mattino” di Napoli, Edoardo Scarfoglio e la di lui moglie, Matilde Serao. E proprio la scrittrice partenopea nel settembre del 1886, su “Il Corriere di Roma”, accostava Ferdinandea al leggendario “castello incantato di Parsifal”. Nel corso dei loro soggiorni, i visitatori potevano apprezzare la munificenza ed il mecenatismo del loro anfitrione. Fazzari aveva fatto della sua dimora una sorta di eterogeneo e caotico museo. Oltre alla “cura” del patrimonio artistico, Fazzari, che nel frattempo era diventato deputato, a Ferdinandea aveva riavviato, dopo averla ammodernata, la vecchia segheria borbonica dotandola, nel 1892, di una dinamo elettrica con la quale venivano movimentate le attrezzature. E proprio nei boschi di Ferdinandea sorgerà nel 1910, ad opera di Cino Canzio, compagno della figlia di Fazzari, Elsa, la prima azienda idroelettrica della zona. Nel corso degli anni la proprietà  passerà più volte di mano. Alla fine delle attività produttive non rimarrà altro che la fonte della Mangiatorella e l’industria boschiva, peraltro privata dal valore aggiunto costituito dalla lavorazione del legname. Per il resto, un lento, inesorabile declino testimoniato dagli immensi capannoni abbandonati ed ormai cadenti, dagli alloggi per gli operai e dal nucleo centrale sul quale incombe inesorabile la scure del tempo. I tanti visitatori, che ancora oggi si avventurano sui luoghi che potrebbero rappresentare il fulcro di un percorso organico di archeologia industriale, subiscono la stretta al cuore di chi vede lentamente svanire il patrimonio di una regione che stenta a comprendere che lo sviluppo turistico passa attraverso il recupero della sua storia.

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Bersaglio Calabria: anche Renzi la mortifica

Da “terra prediletta” a luogo che “non è visibilmente in Italia”. A seconda delle occasioni la Calabria viene posta su piani diversi, ovviamente in base alle circostanze in cui si pronunciano le affermazioni e alle convenienze di chi la nomina. Dopo la caduta di stile di Vittorio Sgarbi, tocca a Matteo Renzi pronunciarsi con toni non certo lusinghieri nei confronti della nostra regione additandola come esempio negativo. Il premier, trovandosi a Mestre a sostenere la campagna elettorale per le regionali di Alessandra Moretti, ha asserito che “se la Calabria funzionasse come il Veneto tutto sarebbe risolto”. Frase sibillina, lanciata di fronte ad un pubblico che queste “trovate” ha spesso dimostrato di apprezzarle. E Renzi, da buon rastrellatore di consensi, ha offerto agli ascoltatori quello che questi vogliono sentire. Peccato che l’ex sindaco di Firenze non abbia trovato il coraggio di pronunciarsi allo stesso modo la scorsa vigilia di Ferragosto a Reggio Calabria, quando al cospetto di furibondi disoccupati, precari e percettori di ammortizzatori sociali elargiva promesse su fondi che sarebbero arrivati e su un futuro meno carico di sofferenze. E i calabresi, per usare un termine a lui caro, sono “stati sereni” riponendo nella sua “coerenza” le speranze della crescita economica. E peccato che il suo “Jobs Act” non sia esattamente la stessa cosa del miracolo economico del secondo dopoguerra e che i dati sull’occupazione giovanile, soprattutto al Sud, facciano preoccupare e anche tanto. Certo, non bisogna nascondersi la verità, la Calabria non è una regione normale, non lo è per tante ragioni. Se lo fosse, non avrebbe la classe dirigente che si ritrova, non sarebbe incollata ai vertici di tutte le classifiche negative, non avrebbe le mafie, la disoccupazione, l’angoscia del presente e la paura del futuro. Ma la Calabria, purtroppo, non è l’eccezione. La Calabria è lo specchio di un Paese malato, marcio, in dissoluzione. La Calabria non è normale tanto quanto il resto della Nazione. Del resto, se l’Italia fosse normale, non solo la Calabria sarebbe come il Veneto, ma Renzi non farebbe il Presidente del consiglio perché non è stato eletto da nessuno; i parlamentari non sarebbero nominati, ma votati; la legge elettorale non sarebbe approvata a colpi di fiducia, ma frutto di un percorso condiviso tra le forze politiche; il parlamento non sarebbe un siparietto popolato da cortigiani più interessati alla poltrona che a cambiare le sorti del Paese. Da buon fiorentino, amante delle corti rinascimentali a tal punto da farne una tutta sua in versione 2.0, il Presidente del consiglio dovrebbe tenere ben a mente le parole di un frate, Girolamo Savonarola, che nella Firenze dei Medici ripeteva che il “bene e il male di una città provengono dai suoi capi”. Pertanto, preso atto che la Calabria non è una regione normale, Renzi, abbandoni i proclami, smetta di cinguettare e ci faccia vedere di cosa è capace. Se è bravo come pensa, tra cinque anni, alle prossime regionali potrà lanciare un bel twett per dire: “tutto è risolto, la Calabria funziona come il Veneto”.

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Era calabrese la ‘Marinella’ di De Andrè

Maria Boccuzzi era una bambina calabrese come tante. Come le molte bimbe meridionali venute al mondo in una famiglia spoglia di ricchezze e di memoria, in un posto senza tempo e con un futuro senz’avvenire.

Era nata a Radicena (Taurianova) l’8 ottobre 1920 e con la famiglia si era trasferita nel ricco Nord in cerca di un lavoro, di una opportunità e nella speranza d’imboccare quell’incrocio ‘anomalo’ del destino che si chiama fortuna.

Nel 1953 il futuro cantautore genovese, Fabrizio De Andrè, aveva 13 anni ed era solito trascorrere, nell’astigiano, periodi di svago lontano dalla scuola dei Gesuiti dell’Istituto Arecco che frequentava insieme ai rampolli della ‘Genova-bene’.

Era il periodo in cui ascoltava il cantautore francese, George Brassens, e si sentiva fortemente attratto dai personaggi che popolavano le sue canzoni che, spesso, riusciva a ritrovare nei fatti di cronaca nera narrati tra le pieghe dei giornali locali.

Nacque da una di queste ‘letture’ il suo incontro con la ‘Marinella’ di origini calabresi, brutalmente uccisa a 33 anni dalle ‘carezze di un animale’ e successivamente scaraventata nel fiume Olona.

È grazie al volume ‘Il libro del mondo’ di Walter Pistarini, in cui è ricostruita la vicenda, che è possibile dare un nome alla protagonista dell’episodio di cronaca realmente accaduto, amata dal ‘re senza corona e senza scorta’ cantata nella canzone che determinò la sorte artistica del cantautore genovese.

“Se una voce miracolosa – era solito dire il cantautore - non avesse interpretato nel 1967 ‘La canzone di Marinella’, con tutta probabilità avrei terminato gli studi in legge per dedicarmi all’avvocatura. Ringrazio Mina per aver truccato le carte a mio favore e soprattutto a vantaggio dei miei virtuali assistiti”.

Lo stesso Fabrizio De Andrè raccontava di essersi ispirato ad una notizia di cronaca nera che aveva letto su un giornale locale quando era ragazzo e che lo aveva particolarmente colpito. La ricostruzione nel libro di Walter Pistarini si basa su una ricerca condotta dallo psicologo Roberto Argenta - cui aveva pubblicato un primo resoconto su ‘La Stampa’ (nelle pagine di Asti) del 13 gennaio 2007 - fatta di ore di lavoro in biblioteca.

Dalla tenacia del ricercatore era emerso un primo indizio sul fatto di sangue a cui il celebre cantautore si era ispirato per la sua canzone. Si tratta, appunto, della storia di Maria Boccuzzi, una prostituta di 33 anni che venne ritrovata morta nel 1953 nell’Olona alla periferia di Milano. La notizia portava il seguente titolo ‘Carica di vistosi gioielli all’appuntamento con la morte’ ma fin qui la fonte era frammentaria e narrava di una prostituta che dopo aver tentato la carriera di ballerina con il nome d’arte di Mary Pirimpò, si era innamorata di un personaggio equivoco ed aveva cominciato a prostituirsi.

Questa storia ha trovato successivamente un riscontro in un articolo de ‘La Nuova Stampa’ del 30 gennaio 1953 - giorno successivo a quello del rinvenimento del corpo - intitolato ‘La mondana trovata uccisa nell’Olona’, che narra la vicenda cosi: “Quella di Maria Boccuzzi…è la storia di una vita torbida troppo presto conclusasi. Venuta a Milano con i genitori dal piccolo centro calabrese di Radicena, dov’era nata l’8 ottobre 1920, Maria Boccuzzi abbandonava la famiglia e il modesto lavoro di operaia alla nostra Manifattura tabacchi, per inseguire la chimera dell’arte scenica. Ma cadde sempre più in basso, fino ad essere fermata una notte dalla squadra buoncostume”. Altri dettagli sull’omicidio raccontano: “sei ferite d’arma da fuoco inducono a ritenere che l’assassino abbia anche infierito sulla disgraziata e, deciso a rendere quanto più perfetto il delitto, abbia provveduto a cancellare ogni possibile traccia del suo crimine…s’impadronì di tutti i suoi documenti, tra cui doveva esserci…una polizza di assicurazione sulla vita che garantiva un capitale di 300.000 lire a beneficio degli eredi eventuali”.

Dalle notizie emerse dalle indagini fatte all’epoca pare che la donna avesse manifestato al suo amante, un ballerino sospettato dell’omicidio, di voler abbandonare quella vita disordinata.

A proposito di questa storia, in una intervista a Vincenzo Mollica Fabrizio De Andrè disse che l’ispirazione per ‘La canzone di Marinella’ gliela aveva fornita “un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte”.

 

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La Calabria trema. Il terremoto del 1638

Quando si parla di terremoti in Calabria, il pensiero corre quasi esclusivamente al sisma del 1783.  Qualche volta si pensa a quelli del 1905 e del 1908, quasi mai allo sciame che scosse la regione nel 1638. Ancor meno noti, il terremoto del 1184 che devastò la Valle del Crati e quello del 1626 che distrusse Girifalco. Tuttavia, nella storia dei terremoti calabresi, il vero spartiacque è segnato proprio dal 1638 quando, tra marzo e giugno, si sussegue una serie di scosse la cui potenza distruttiva è, per certi versi, maggiore di quelle del 1783. In particolare, per quanto riguarda la parte centro meridionale della regione, gli eventi tellurici del 1638 sono considerati dai sismologi come i più distruttivi tra quelli verificatisi nell’ultimo millennio. Le prime avvisaglie vengono avvertite il 18 gennaio. Si tratta di poca roba, niente di preoccupante, almeno fino al pomeriggio di sabato 27 marzo quando, una scossa dell’undicesimo grado della scala Mercalli, scuote la Valle del Crati e quella del Savuto. I paesi di Carpanzano, Conflenti, Diano, Grimaldi, Mangone, Martirano, Motta Santa Lucia, Rogliano, Savuto e Scigliano vengono letteralmente rasi al suolo. Ma non c’è solo il terremoto. La scossa, infatti, innesca uno Tsunami che si abbatte sul litorale di Pizzo. Secondo la testimonianza del gesuita Giulio Cesare Recupito, il mare si sarebbe ritirato di 2 mila piedi (quasi 4 chilometri) prima d’abbattersi con tutta la sua forza sulla spiaggia. I bilancio del 27 marzo è drammatico, come se non bastasse, il giorno successivo, domenica delle Palme, il terremoto colpisce nuovamente. Questa volta, ad essere devastati sono il lametino ed il versante occidentale delle Serre dove vengono colpiti Soriano e Monterosso; di Castelmonardo, l’attuale Filadelfia, rimangono solo rovine. Complessivamente, però, l’area interessata dal sisma è molto più estesa, coinvolge 107 centri, 17 dei quali vengono letteralmente rasi al suolo. Non hanno scampo neppure le città. A Cosenza, vengono seriamente danneggiati il Duomo ed il Castello, a Catanzaro 300 edifici devono essere abbandonati. In alcuni casi i danni sono così estesi che i sopravvissuti preferiscono lasciare i vecchi paesi per trasferirsi altrove, come nel caso di Feroleto, dove una parte degli abitanti si trasferisce a valle e fonda Feroleto Piano, l’attuale Pianopoli. Lo sciame sismico, seppur con intensità più lieve, va avanti per tutto il mese d’aprile e provoca più paura che danni. Gli effetti delle scosse principali producono conseguenze durature anche nel paesaggio e sull’ambiente naturale. Un esempio fra tutti, l’impaludamento dell’area compresa tra i fiumi Amato ed Angitola per la cui bonifica bisognerà aspettare il 1928. Per quanto riguarda, invece, le conseguenze generali, un quadro attendibile è tracciato da Ettore Capecelatro, il consigliere del viceré di Napoli, Ramiro Felipe Nuñez de Guzmàn, il quale viene nominato plenipotenziario per le province calabresi. Una sorta di commissario incaricato di gestire l’emergenza. Secondo la relazione redatta da Capecelatro, il terremoto ha causato la distruzione totale o parziale di 13 mila case e la morte di 9.571 persone. Una stima, probabilmente, errata per difetto, tanto che nella relazione inviata alla corte di Madrid, dalla quale dipende il vicereame di Napoli, il numero delle vittime sfiora le 30 mila unità. Si sta completando la stima dei danni quando, l’8 giugno, un nuovo terremoto colpisce il versante orientale della Sila. Secondo la relazione di Capecelatro, il nuovo evento sismico distrugge 6 paesi e ne danneggia altri 15. Oltre ai danni ai centri abitati, il terremoto modifica la geografia di una vasta area. Come riporta Agazio Di Somma nel suo “Historico racconto de i terremoti della Calabria dall’anno 1638, fin’anno 1641”: “ Dal confine di Policastro fin'all'estrema parte della montagna, che chiaman Sila, alla volta di Tramontana, si abbassò per trè palmi dall'un lato il terreno, per lo spazio di sessanta miglia, con diritto solco stendendosi, e quel, che riesce di maggior maraviglia, si diffuse con ugual tenore, non meno nelle più basse valli, che nelle più alte montagne; Fu qui similmente osservato, che da quelle voragini esalava fuora fetor di solfo, e che per alcune sere, che precessero al terremoto”.

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Stanotte due terremoti al largo della Calabria

Sono numerosi i movimenti tellurici registrati, negli ultimi giorni, dall'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia al largo della costa calaberse. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono stati rilevati questa notte. Uno di magnitudo 3.3 e' stato avvertito alle 3,39 ed ha avuto come epicentro il mar Tirreno di fronte la costa calabra a 267.9 km di profondità. L'altro di magnitudo 2.2 e'stato rilevato, alle 3,17, nello Stretto di Messina a 34,4 chilometri di profondita'.

 

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