Fabio Bava è il nuovo vice direttore della Scuola regionale sport della Libertas Calabria

Fabio Bava è il nuovo vice direttore della Scuola regionale sport della Libertas Calabria.

La nomina è stata conferita nei giorni scorsi, dal presidente del Centro regionale sportivo Libertas Calabria, Santo Mineo.

Si tratta di un importante riconoscimento, in virtù del quale il docente spadolese svolgerà un ruolo direttivo nell’ambito di un ente di promozione sportiva presente da oltre mezzo secolo su tutto il territorio nazionale.

Il Cns Libertas – che nel 1976 è stato riconosciuto dal Coni e nel 1979 dal Ministero dell’Interno come ente nazionale con carattere assistenziale – pur operando su diversi livelli, mette lo sport al centro della sua attività, cercando di dare alla pratica sportiva un ruolo culturale e una valenza formativa e sociale, fino a farlo diventare “una leva di coscienza civile e di welfare”.

Crisi Ucraina, Biden ignora Draghi e Di Maio

La guerra in Ucraina tiene in allerta la diplomazia internazionale. Non passa giorno senza che venga aperto un nuovo tavolo per cercare di dare soluzione alla crisi.

L’ultimo, in ordine di tempo, ha visto protagonista il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il quale ha convocato un summit in videoconferenza per coordinare le prossime mosse con gli alleati. Seduti attorno al tavolo, oltre al presidente Usa: il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il premier britannico Boris Johnson.

E  l’Italia? L’Italia di Draghi e Di Maio non è stata invitata.

Biden avrà pensato che non valesse la pena scomodare il Belpaese e il suo ritrovato prestigio internazionale, per discutere di bagattelle come la guerra in Ucraina.

Storia: i russi alla conquista del mar Nero. Un napoletano tra i protagonisti delle guerre con i turchi

Nel loro attacco all’Ucraina le truppe russe stanno concentrando una parte importante delle forze sul fronte meridionale. E’quella l’area in cui, secondo numerosi osservatori, starebbero avvenendo le battaglie più sanguinose. Del resto, la fascia di terra che si affaccia sul mar Nero presenta una straordinaria valenza strategica per entrambi i contendenti. Per gli ucraini, costituisce l’unico sbocco al mare; mentre per i russi rappresenta la possibilità di riaffermare l’egemonia esercitata sul mar Nero per oltre due secoli.

L’ultimo zar del Cremlino non fa mistero, infatti, di voler riprendere il controllo di un’area oggetto dell’espansionismo russo a partire dalla fine del Seicento, quando Pietro il Grande iniziò a cullare il sogno di dare al suo nascente impero uno sbocco verso i mari caldi. Nel 1696 - ben prima della pace di Nystadt (1721) con la quale acquisirono il controllo del Baltico ai danni della Svezia - i russi avevano già occupato la fortezza turca d’Azov. Era seguita la costruzione del porto di Taganrog e di una flotta destinata a presidiare il nuovo insediamento. Nelle intenzioni, Azov avrebbe dovuto essere l’avamposto da cui muovere per una successiva espansione. Infatti, in un secondo momento, lo zar sostenne le sue pretese davanti alla Sublime Porta, occupando l’antico khanato tataro di Crimea, protettorato ottomano dal 1475. L’occupazione durò fino al 1711, quando, impegnati nella guerra con la Svezia, i russi dovettero restituire tutto agli ottomani. Nel 1736, durante il regno dell’imperatrice Anna, le truppe zariste ritornarono in Crimea, ma furono costrette a lasciarla nuovamente in seguito al trattato di Nissa. Ad assicurare il definitivo controllo sul khanato, fu Caterina II, per la quale la conquista della Crimea rientrava in un disegno molto più ambizioso: il “Progetto greco“, ovvero un grandioso programma d’espansione, elaborato nel 1780 dal segretario privato dell’imperatrice, Aleksandr Andreevič Bezborodko. Il progetto puntava a sottrarre ai turchi i possedimenti europei, spartire i Balcani tra Russia e Austria e creare un impero cristiano con capitale Costantinopoli. A favorire l’idea avevano contribuito i risultati incoraggianti conseguiti nel corso della Prima guerra russo-turca, originata, nel 1768, dalla decisione del Sultano Mustafa III di opporsi a Caterina II che, contravvenendo agli accordi del 1739, che impedivano alla Russia di intromettersi negli affari polacchi, aveva posto sul trono della Confederazione polacco-lituana il suo favorito Stanislao Augusto Poniatowski. La guerra si concluse nel 1774 con il trattato di Kücük Kainarci, con il quale i russi si assicurarono il possesso dei porti d’Azov, dello stretto di Kerch e della base di Taganrog, nonché  il controllo dell’estuario del Dnieper e il riconoscimento della neutralità della Crimea.

Nel 1777, Caterina decise di affidare le province della Nuova Russia (Novorossija) e d’Azov - ovvero i territori corrispondenti all’attuale Ucraina sud-orientale - al governo di uno dei suoi innumerevoli amanti: il conte Grigorij Aleksandrovic Potëmkin. Tra il 1778 e il 1779 vedranno la luce le nuove città di Ekaterinoslav, Cherson e Nikolaev, nelle quali arriveranno coloni tedeschi, polacchi, italiani, greci, bulgari e serbi. In linea con il “Progetto greco”, nel 1783 la zarina decretò l’annessione della Crimea, cui seguì, l’anno successivo, la costruzione della base navale di Sebastopoli.

Un altro tassello alla realizzazione delle aspirazioni russe fu aggiunto, a partire dall’autunno del 1787, quando Russia e Austria si coalizzarono contro svedesi e ottomani. Determinata a mantenere le conquiste e a realizzarne di nuove, Caterina affidò il comando della Seconda guerra russo-turca a Potëmkin. Sulle prime, complice una tempesta che ne disperse la flotta, i russi furono costretti sulla difensiva. Approfittando della momentanea superiorità sul mare, i turchi concentrarono 42 vascelli nell’estuario del Dnieper e sbarcarono 5 mila uomini destinati ad attaccare la fortezza di Kinburn. L’assedio, grazie all’energia dimostrata dal comandante della piazzaforte, conte Aleksandr Vasil’evic Suvorov, si rivelò un fallimento e i turchi dovettero battere in ritirata. Bloccata dai rigori dell’inverno, la guerra riprese vigore l’anno successivo. Nel frattempo, Potëmkin aveva silurato Mordvinov, affidando il comando della flotta del mar Nero al principe Karl von Nassau-Ziegen, il quale, coadiuvato dal brigadiere Panaiothos Alexiano e dal padre della marina Usa, contrammiraglio John Paul Jones, tra il 28 e il 29 giugno 1788, presso l’estuario del Dnieper, ebbe ragione della squadra navale guidata dal kapudan (ammiraglio) Hassan Pasha. Il 10 luglio, i russi ingaggiarono nuovamente battaglia presso l’isola di Tendra, dove la squadra navale del contrammiraglio conte Mark Voynovich, sbaragliò ciò che restava della flotta ottomana. Acquisito il controllo sul mare, i russi cinsero d’assedio Očakov, sull’estuario del Dnepr. Dopo una fase di studio, spinto dai rigori dell’inverno e dal bellicoso generale Aleksandr Suvorov, a dicembre del 1788, Potëmkin lanciò all’assalto i suoi 50 mila uomini. La battaglia fu un bagno di sangue. Al prezzo di 20 mila morti, i russi riuscirono a espugnare la fortezza, lasciando sul campo più di 30 mila turchi. L’anno seguente, una nuova flotta del sultano guidata da Pasha Hussein, puntò sulla Crimea. Informato della manovra, il nuovo comandante della squadra di Sebastopoli, ammiraglio Fedor Fedorovic Ushakov, il 19 luglio 1790 ingaggiò battaglia nello stretto di Kerch dove riportò una brillante vittoria. Nel frattempo, i generali di Caterina II avevano deciso di puntare l’intera costa settentrionale del mar Nero, fino alla foce del Danubio. Un obiettivo ambizioso, tanto più che avrebbero dovuto fare i conti con la formidabile fortezza di Izmail. Situata sulla riva sinistra dell'estuario del Danubio, la città – che oggi si trova nella regione ucraina di Odessa - era stata fondata dai genovesi nel XII secolo. Conquistata dagli ottomani nel 1484, era stata ammodernata da ingegneri francesi e tedeschi poco prima dello scoppio della guerra. Protetta da possenti mura, da un fossato di 12 metri di larghezza per 6 di profondità e su un lato dal Danubio, Izmail, con i suoi 11 bastioni difesi da 260 cannoni e 40 mila uomini, era considerata inespugnabile.

A questo punto della storia, entra in scena Don Giuseppe de Ribas y Boyonsin un napoletano che avrà un ruolo decisivo nella caduta di Izmail. Di padre spagnolo e madre irlandese, era nato all’ombra del Vesuvio nel 1749, dove, all’età di 16 anni, era entrato nella Guardia napoletana con il grado di tenente. Nel 1769, a Livorno, conoscerà l’uomo che gli cambierà la vita: il comandante in capo della Marina russa conte Aleksei Orlov. Arrivato con la flotta del Baltico per impegnare le navi del sultano nel Mediterraneo, Orlov rimase affascinato dal giovane napoletano che parlava fluentemente sei lingue. Decise, quindi, di farlo diventare suo assistente e interprete. Nel 1770, de Ribas parteciperà alla battaglia di Cesme - la prima combattuta da navi russe nel Mediterraneo – culminata in una cocente sconfitta per la flotta ottomana. Nel 1772 lo troviamo a San Pietroburgo, con il nome di Osip Michajlovic Deribas, dove l’anno successivo entrerà al servizio del nuovo favorito della zarina, il conte Potëmkin, con il quale raggiungerà l'Ucraina meridionale per assumere il comando di una squadra navale.

Nel 1790, dopo aver conquistato diversi successi in una serie di scorribande contro gli insediamenti turchi lungo la costa, de Ribas venne incaricato da Potëmkin di conquistare Izmal insieme al conte Ivan Vasil'evic Gudòvic. Iniziato nel marzo 1790, l’assedio andò avanti fino a novembre, quando, in vista dell’inverno, Gudòvic decise di sospendere le operazioni. La notizia mandò su tutte le furie Potëmkin che decise di sostituire Gudòvic con Suvorov. Giunto a Izmail, il generale convocò de Ribas e insieme a lui predispose il piano d’attacco. Il 21 dicembre intimò l’ultimatum alla guarnigione. Ricevuta la risposta negativa dal comandante ottomano, Aydozle-Mehmet Pasha, alle 3 del mattino del 22 dicembre, mosse all'attacco su tre direttrici. Un ruolo decisivo lo ebbe proprio de Ribas che, a capo di 9 mila uomini, portò l’attacco nel punto più inaccessibile, sulle sponde del Danubio, dove le difese erano più deboli. L’assalto disorientò i difensori che non si aspettavano di essere attaccati in quel settore. Nel tentativo di chiudere la falla che si era creata su quel lato, i turchi dovettero spostare parte delle truppe che stavano fronteggiando i 7500 uomini del generale Pavel Potemikin sull’ala occidentale e i 12 mila del generale Samoilov su quella orientale. Alle 16 la battaglia era finita, la fortezza era caduta. Come negli assedi medievali, per tre giorni i vincitori ebbero licenza di saccheggio. Fu una carneficina: i turchi contarono più di 26 mila morti e 9 mila  prigionieri. I russi, dal canto loro, ebbero 1815 caduti e 2445 feriti. L’anno successivo, gli ottomani cercarono la rivincita in mare, ma le squadre navali algerine, tunisine e tripoline, vennero sbaragliate appena giunte nel mar Nero.

Tutto sembrava andare nella direzione del compimento del “Progetto greco”, se non fosse che sull’Europa incombeva lo spettro della Rivoluzione francese. Preoccupato dai furori rivoluzionari, l’imperatore austriaco Leopoldo II firmò la pace di Sistova (agosto del 1791 ) con la quale restituì ai Turchi la gran parte delle conquiste ottenute. Privata dell’alleato austriaco, Caterina II dovette sottoscrivere il trattato di Jassy (gennaio 1792). La Russia ottenne comunque la piazzaforte di Očakov, la costa settentrionale del mar Nero fino a Dnestr e il riconoscimento dell’annessione della Crimea, mentre Izmail venne restituita ai turchi. Dopo trecento anni di dominio turco, il mar Nero diventava un lago russo. Per i suoi servigi, nel 1791 de Ribas ricevette il comando della flotta del mar Nero. Proprio nelle vesti di ammiraglio, nel 1794, propose a Caterina di costruire Odessa. La nuova città russa nascerà con un’impronta spiccatamente italiana, ma questa è un’altra storia.

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La guerra indigna solo quando va in tv

A quelli che trovano assurda la guerra 'perché siamo nel 2022', è bene far notare che in Siria e Libia si combatte ogni giorno, da oltre 10 anni, azeri e armeni si sono fatti a pezzi di recente, mentre nella regione etiope del Tigrè la gente muore di guerra da oltre un anno.

Il tutto nella più assoluta indifferenza delle anime pie che trovano il tempo d'indignarsi solo quando è la tv a chiederglielo.

Serra, quando l’acqua in casa non c’era e i panni si lavavano al fiume

Nella primissima fase della crisi idrica che si sta abbattendo su diversi comuni calabresi, qualcuno, con tono ironico, ha affermato che si sarebbe ritornati a lavare i panni al fiume. Con il trascorrere dei giorni, l’ironia ha lasciato il campo all’indignazione per poi, con il protrarsi delle difficoltà, trasformarsi in rabbia. Una rabbia provocata da disagi che ricordano solo lontanamente quelli vissuti in un tempo in cui, a dispetto del popolare adagio, “i panni sporchi non si lavavano in famiglia”.

Quando l’acqua in casa non era neppure una fantasia e Thomas Bradford e William Blackstone non avevano ancora inventato la lavatrice, il bucato, infatti, si faceva rigorosamente all’aperto. A dire il vero, anche molti anni dopo l’invenzione – avvenuta sul finire dell’Ottocento - dell’elettrodomestico che ha cambiato la vita delle casalinghe e non solo, i panni si lavavano nei fiumi o nei lavatoi pubblici. Dell’incombenza, ovviamente, si facevano carico donne e ragazze, aduse a svolgere la mansione per conto dei familiari o, dietro compenso, di persone benestanti. Queste ultime erano le lavandaie di professione, donne umili, talvolta vedove, che non avevano altro modo per sfamarsi se non quello di lavare i panni altrui. Ovviamente, anche se il lavaggio non era frequente come ai giorni nostri – basti pensare che un galateo francese del Settecento prescriveva di cambiare la camicia ogni 40 giorni – l’incombenza si presentava piuttosto disagevole, tanto più che l’abitudine di cambiarsi d’abito con poca frequenza produceva uno sporco ostinato, difficile da rimuovere. In particolare, nei paesi di montagna, come Serra San Bruno, dove le temperature invernali erano particolarmente inclementi, le donne dovevano fare una fatica del diavolo.

Di quell’epoca, di cui sicuramente nessuno – a partire dalle donne - sente la nostalgia, nel borgo della Certosa rimane un ricordo sempre più ingiallito, come una vecchia cartolina dimenticata in soffitta. Di quella storia, per noi, pittoresca, oggi, a parte qualche personale ricordo, rimangono il lavatoio “di lu Laccu” - sulla strada che porta alla fontana di Guido - e quello ancora presente sotto il ponte della Scorciatina, rimasti entrambi in attività fino alla fine degli anni Settanta. Non tutte le donne, però, ricorrevano ai lavatoi. La gran parte, preferiva andare direttamente al fiume, dove poteva scegliere e sistemare una grande pietra sulla quale strofinare vigorosamente il bucato. Ogni lavandaia, aveva la sua pietra personale che non poteva essere usata dalle altre, se non in sua assenza.

L’operazione di lavaggio era un vero e proprio rito, il più delle volte collettivo, che necessitava di una serie di passaggi propedeutici, a partire dalla preparazione del detergente. In anni in cui il detersivo non si trovava bello e pronto sugli scaffali del supermercato, le soluzioni erano due: il sapone fatto in casa con soda caustica e grasso di maiale e la “lissia” (liscivia), ottenuta facendo bollire in acqua, cenere ricavata solo da alcune varietà di legna, come abete o faggio. Quella di castagno, ad esempio, non era adatta poiché, a causa della gran quantità di tannini contenuta, macchiava o ingialliva i panni. Una volta ottenuto il composto, la brava massaia aspettava la sera per preparare una tinozza (lu tiniedhu) con i panni da lavare e dopo avervi disposto in superficie un drappo che fungeva da setaccio, vi versava la “lissia”. I vestiti rimanevano, quindi, in ammollo nella tinozza dalla quale, durante la notte, l’acqua fuoriusciva lentamente attraverso un apposito buco posto alla base. Per combattere lo sporco più ostinato si faceva ricorso ad un’asse di legno dotato di vistosi solchi orizzontali (la tavuledha) sui quali i vestiti venivano strofinati energicamente. La mattina successiva si preparava la “curudha”, ovvero uno strofinaccio modellato a mo’ di ciambella, con la funzione di ammortizzare il peso della cesta che, con all’interno i panni da portare al fiume, veniva posta sulla testa. Con il carico tenuto in straordinario equilibrio anche nelle situazioni più impensabili, la lavandaia, il più delle volte accompagnata dai figli più piccoli, raggiungeva il fiume o il lavatoio.

Lo “spettacolo” delle donne intente a svolgere la loro incombenza nelle fredde acque dell’Ancinale doveva essere piuttosto apprezzato dal sesso forte, tanto che qualcuno ricorda ancora la battuta di un buontempone dei tempi che furono, al quale un amico, vedendolo appoggiato al parapetto del fiume, chiese cosa stesse facendo e quello, di rimando, rispose con un arguto doppio senso: “vinni mu vighiu cu l’ava lu miegghiu”. Non tutti, ovviamente, avevano la propensione alla celia, a partire dalle protagoniste che, proprio, nel fiume svolgevano l’attività più faticosa, ovvero strofinare i panni per poi immergerli in acqua. A rendere meno affliggente l’incombenza era l’immancabile cicaleccio fatto di racconti e maldicenze che le donne si scambiavano. La propensione alla critica doveva essere particolarmente spiccata se, ancora oggi, la sferzante espressione di “lavandara” viene usata per indicare una donna usa alla maldicenza più sgraziata. Una volta lavati i panni, le donne facevano ritorno a casa, dove procedevano alla stenditura ed alla successiva stiratura con il ferro a carbone.

Di questa lunga storia, conserviamo due personali ricordi: un gruppo di donne alle prese con il bucato nel lavatoio “di lu Laccu” e una donna minuta, che a metà anni Ottanta, passava ancora davanti alla “funtana di la Pisciaredha” con in testa una vasca di zinco nella quale portava il bucato al lavatoio, oggi abbandonato, sotto il ponte della Scorciatina.

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Vaccini e booster: i dubbi dell’Oms e il silenzio della stampa

"Sono necessari e andrebbero sviluppati vaccini contro il Covid-19 che abbiano un alto impatto sulla prevenzione dell'infezione e della trasmissione, oltre che sulla prevenzione di malattie severe e morte".

La dichiarazione fatta durante una conferenza stampa dagli esperti dell'Organizzazione mondiale della Sanità, in un paese con una stampa meno ancillare di quella italiana, avrebbe conquistato la prima pagina dei giornali e innescato un dibattito pubblico. Invece, nella democrazia del pensiero unico, la notizia, nella migliore delle ipotesi, è finita in uno di quei pastoni utili solo a riempire d’inchiostro una pagina

Eppure, le parole degli esperti dell’Oms sembrano essere una chiara bocciatura della scelta di puntare tutto su vaccini che - pur riducendo ospedalizzazioni e decessi – non sembrano adeguati a sconfiggere definitivamente il virus.

Le valutazioni dell’Oms meriterebbero un immediato approfondimento, soprattutto nel momento in cui in Italia si spinge acriticamente sulla vaccinazione dei bambini – dopo aver ripetuto per due anni  che non erano a rischio – e sulla somministrare della terza dose – nonostante il Ceo di Moderna abbia fatto capire che con ogni probabilità il booster non durerà a lungo.

A ciò si aggiunga la possibilità, tutt’altro che peregrina, che i ‘vecchi’ vaccini potrebbero rivelarsi inadeguati a contrastare le nuove varianti del virus.

Un’ipotesi, in merito alla quale, gli esperti dell’Oms sembrano avere idee ben chiare: "una strategia di vaccinazione basata su richiami ripetuti dei vaccini attuali ha poche possibilità di essere appropriata o sostenibile - spiegano - in attesa che nuovi vaccini siano disponibili, occorrerà forse aggiornarne la composizione per garantire che continuino a fornire il livello di protezione raccomandato dall'Oms contro l'infezione e la malattia causata dalle varianti".

Affermazioni che fanno il paio con quelle del capo della strategia vaccinale dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco), Marco Cavaleri per il quale “vaccinazioni ripetute a brevi intervalli non rappresentano una strategia sostenibile a lungo termine”. E a proposito di una dose ulteriore successiva alla terza, Cavaleri aggiunge: “non abbiamo ancora dati sulla quarta dose per poterci esprimere, ma ci preoccupa una strategia che prevede di andare avanti con le vaccinazioni a distanza di poco tempo”.

Considerazioni che sembrano mettere in discussione la strategia adottata dal governo italiano per condurci fuori dal tunnel del Covid.

 

Le anomale ‘anomalie’ dei ‘giunti’ della Trasversale delle Serre

La Trasversale delle Serre - croce per gli automobilisti e delizia per schiatte di politici che sopra ci hanno ricamato le loro inutili carriere - ritorna a far parlare di sé. A fare notizia, questa volta, sono “i giunti” posizionati “nel tratto compreso tra il km 36,800 e il km 37,000 a Gagliato”. Secondo una nota diffusa stamane da Anas, “nel tratto" in questione sarebbero, infatti, emerse “anomalie” da “ascrivere a un difetto di posizionamento dei giunti all’epoca della costruzione”. Pertanto, sarebbero stati “consegnati” i “ lavori di completamento necessari al loro riallineamento”.

A voler essere pignoli, però, ciò che appare più anomalo delle “anomalie” stesse, è il fatto che nessuno se ne sia accorto prima.

Eppure, i “giunti”, già all’indomani dell’inaugurazione – avvenuta il 30 giugno 2016 - di problemi ne avevano dati e non pochi.

A dispetto del collaudo, evidentemente, superato senza colpo ferire, poche settimane dopo l’apertura della strada, con il passaggio dei primi veicoli, “i giunti” avevano iniziano a perdere le coperture, danneggiando cinque automobili in altrettante occasioni.

La situazione di pericolo non era sfuggita al comitato “Trasversale delle Serre - 50 anni di sviluppo negato” che, il 1 settembre 2016, aveva minacciato di rivolgersi alla magistratura. Pochi giorni dopo – il 5 settembre - Anas era intervenuta con la sostituzione e la messa in sicurezza dei giunti “ballerini”. Stranamente, però, neanche in questa circostanza nessuno si è accorto delle “anomalie”.

Come se non bastasse, neppure durante i lavori di “pavimentazione stradale e protezione della carreggiata", eseguiti a novembre 2007, "sul tratto della strada statale 182 "Trasversale delle Serre", tra i territori comunali di Chiaravalle, Argusto, Petrizzi, Gagliato e Soverato", nessuno ha, evidentemente, trovato nulla da eccepire.

Come sia stato possibile dover aspettare un lustro per cogliere “l’anomalia” rimarrà un mistero, non l’unico per una strada che a distanza di mezzo secolo dal suo concepimento appare, ancora, un irraggiungibile miraggio.  

Il bar Bosco e il suo “Genius loci”. L’ultracentenaria storia del più antico caffè serrese

Ci sono luoghi fantastici la cui vista suscita sempre un sussulto dell’anima. Sono quei posti cui gli antichi Romani associavano la presenza manifesta di un “Genius loci”. Se è vero quanto scriveva  Servio Mario Onorato, ovvero che "nullus locus sine Genio" (nessun luogo è senza un "Genio"), è altrettanto vero che è possibile cogliere il “Genius loci” soprattutto in presenza di un bel panorama, di un paesaggio singolare o di un posto in cui si soggiorna piacevolmente. In tempi recenti, l’architettura ha riscoperto il “Genius loci”, identificandolo con il tratto distintivo di un luogo che non dovrebbe mai essere alterato o distrutto.

Tra le tante località calabresi dove storia e natura si sono intrecciate per regalare arte e scorci mozzafiato, spicca Serra San Bruno. Nella cittadina bruniana è, infatti, possibile imbattersi nei tanti “Genii” che popolano le chiese, la Certosa, Santa Maria del Bosco o i sentieri che si dipanano all’ombra dei monumentali abeti bianchi.

A volte, però, il “Genius”, è schivo, riservato, quasi ritroso. In tal caso, si manifesta solo a chi inconsapevolmente lo cerca, il più delle volte senza neppure conoscerne l’esistenza. E’ quello che molto probabilmente accade a quei visitatori che, intenti a solcare il selciato del centro storico, si fanno irretire da un luogo singolare che sorge lungo corso Umberto I: il bar Bosco. Chi attraversa la soglia del locale, gestito con gentilezza d’altri tempi dall’ingegnere Pasquale Degni, viene rapito dall’atmosfera che nulla ha a che fare con un semplice bar. Al Bosco, infatti, la definizione di bar sta strettissima. Si tratta, piuttosto, di un caffè, ma non di un caffè qualsiasi, piuttosto uno di quei caffè storici nei quali spicca una tempra d’antan. Una tempra forgiata dal tempo, poiché “L’Andra Boschi”, come veniva familiarmente chiamato dai serresi di una volta, è uno dei locali più longevi dell’intera Calabria. Le sue origini risalgono, infatti, al 1890 quando a Serra San Bruno si stabilirono alcune famiglie amalfitane. Sono gli anni in cui sulla tratta Napoli - Amalfi – Pizzo si muovono bastimenti che fanno approdare in Calabria non solo merci, ma anche uomini dotati di uno straordinario fiuto per gli affari. Molti s’installano lungo la costa, altri, i più temerari, s’incamminano verso il cuore della regione e arrivano a Serra San Bruno. Tra loro, figura anche un intraprendente giovanotto, Andrea Bosco. Giunto in un paese che sembra fatto apposta per esaltare il suo cognome, decide di creare qualcosa che a quelle latitudini nessuno aveva mai visto prima: un caffè. Uno di quei locali nati tra Sei e Settecento come luogo di discussione della borghesia tenuta alla larga dai salotti dell’aristocrazia e non incline a frequentare le osterie o le birrerie popolari. Il nostro, vuole fare le cose in grande e si propone di riprodurre a Serra uno di quei locali che i turisti, soprattutto inglesi, amano frequentare a Napoli e in Costiera. Per rendere il progetto all’altezza dei tempi, decide di spedire a Napoli il figlio Giuseppe - nato dal matrimonio con la serrese Giuseppina Zaffino - al quale viene affidato il compito di apprendere l’arte della pasticceria nell’allora prestigioso laboratorio Caflisc di via Toledo. Arrivato nel capoluogo partenopeo, il rampollo Bosco studia con zelo e manda istruzioni e ricette manoscritte alle quattro sorelle - Teresa, Elvira, Mafalda e Gaetana - rimaste a Serra. Il progetto di Andrea riscontra un sorprendente successo. Complice la vicinanza della fermata dell’autobus, il caffè Bosco richiama sempre nuovi clienti, attratti sia dalla pasticceria napoletana, che dal Marsala e dal Vermut, il cui consumo era tale da giustificare la mescita direttamente dalle botti. Con la Grande guerra, però, le cose cambiano. Giuseppe, infatti, viene richiamato alle armi e perde le gambe in seguito alle ferite riportate in combattimento.

Le ragazze della famiglia Bosco sono, quindi, destinate ad assumere un ruolo sempre più attivo nella gestione del locale. Come solo le donne sanno fare, le quattro sorelle si gettano a capo fitto nell’impresa e nel volgere di pochi anni i loro dolci primeggeranno nelle più importanti manifestazioni di categoria. Nel 1926, infatti, con il torrone gelato si aggiudicano il Diploma di Gran Premio e la Medaglia d’oro all’esposizione campionaria di Roma. A distanza di qualche mese, un altro importante riconoscimento arriva dalla Fiera campionaria internazionale di Milano. Il caffè Bosco diventa un punto di riferimento per l’intero circondario. In anni in cui la pasticceria non era alla portata di tutte le tasche, i dolci si apprezzavano soprattutto durante le ricorrenze. Così, in occasione delle feste di fidanzamento entravano in funzione i cliché in marmo con i quali veniva data forma alle immagini votive fatte di biscotto o ‘Nzudu. Quest’ultimo – destinato a diventare uno dei dolci tipici serresi – nasce nel laboratorio delle sorelle Bosco che, con grande fantasia, rielaborano la ricetta dei Rococò napoletani. Tra gli altri prodotti tipici, richiesti soprattutto in occasione dei matrimoni - all’epoca rigorosamente festeggiati tra le mura domestiche - i biscottini senza uovo, i Giambirlietti e i Raffiuli. Come ama ricordare l’ingegnere Degni – nipote di Andrea e figlio di Mafalda - “all’epoca c’era lo spirito di fare le cose bene e la ricetta prevedeva che un chilo di Raffiuli fosse composto rigorosamente da 51 dischetti di Pan di Spagna, ognuno dei quali adagiato su una griglia per far gocciolare la glassa di zucchero in eccesso con la quale era ricoperto”. La tradizione della pasticceria napoletana si faceva sentire soprattutto nel periodo Pasquale, quando venerdì Santo andavano in forno le pastiere che, come amava ripetere Gaetana Bosco, “erano così buone da non arrivare mai in vetrina”. Ovviamente, la pasticceria Bosco non confezionava solo prodotti da forno - peraltro venduti anche nelle fiere di paese - ma anche gelati e granite per i quali era necessario ricorrere al ghiaccio delle “niviere”, ovvero le enormi buche scavate nel bosco per stipare la neve caduta durante l’inverno. Ogni bar aveva la sua “nivera”, la “nostra – racconta l’ingegnere Degni – era a San Rocco e veniva usata a partire da Pentecoste”. In occasione delle festività maggiormente avvertite dai serresi, ovvero Pentecoste, Ferragosto e Addolorata, il consumo di gelati e granite era tale da dover ricorrere ai muli per trasportare i blocchi di ghiaccio indispensabili a refrigerare gli ingredienti necessari alla composizione delle ricette. I clienti del caffè Bosco potevano, quindi, ristorarsi nello straordinario giardino, ancora oggi, ombreggiato da una secolare vite, con i gelati prodotti in tre soli gusti: limone, crema e torrone. In occasione di Ferragosto e dell’Addolorata, gli avventori potevano gustare anche il “Pezzo duro”, un particolare gelato modellato in un stampo tuttora conservato nel laboratorio del locale.

La granita invece, era prodotta rigorosamente con limoni spremuti a mano uno per volta. Nel corso degli anni, il caffè Bosco, subirà le altalenanti vicende che il destino riserva alle cose terrene. Nel 1935, ad esempio, viene devastato dall’alluvione che colpisce Serra. A quella terribile tragedia scamparono solo alcune bottiglie di liquore – tuttora in mostra nel locale - sfuggite alla furia delle acque, perché riposte sugli scaffali più alti. Un altro duro colpo arriverà nel 1956, con la morte di Mafalda. La pasticceria Bosco continuerà a sfornare leccornie fino alla morte di Elvira, avvenuta nel  1973. Di quella tradizione, lunga oltre un secolo, oggi rimangono i buonissimi ‘Nzudi preparati dalla signora Elvira – moglie dell’ingegnere Degni - e le fantastiche granite da gustare, come in passato, nel magnifico giardino nel quale continua ad aggirarsi un ostinato e volitivo “Genius loci”, capace di perpetuare se stesso incurante delle scorribande del tempo.

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