Liberi di viaggiare, ma non a Natale

Segnate bene queste date: 25, 26 dicembre e 1 gennaio prossimi. Sono i giorni in cui, alla luce dei provvedimenti previsti dal governo, il coronavirus potrebbe impazzare più che mai. Per fugare qualunque rischio, sono state vietate le insidiose trasferte da un comune all'altro. Del resto, il virus infuria e bisogna essere cauti. Certo è un sacrificio, ma di breve durata. In fondo, chi vorrà viaggiare - più o meno - liberamente potrà beatamente farlo prima del 21 dicembre. A tal riguardo, giova ricordare che per incentivare gli italiani a mettersi in marcia, Conte ha pensato bene di far scattare il divieto da lunedì.

Pertanto, sarà possibile beneficiare anche dell’occasione offerta dal fine settimana. Inoltre, alla luce di quanto accaduto a marzo, quando le restrizioni vennero comunicate a poche ore dall’entrata in vigore, questa volta sono state annunciate con congruo anticipo. Dunque, nessuna lamentala, c’è tutto il tempo per organizzarsi e mettersi in marcia in tutta tranquillità; anche perché attraversare la Penisola per andare, ad esempio, da Trento a Marsala, non comporterà alcun rischio.

Il vero pericolo, invece, potrebbe sorgere qualora si dovesse sfidare il virus per andare nel paese vicino il giorno di Natale.  

 

L’aceto dei quattro ladri, l’antico rimedio contro le epidemie

La lunga disputa tra l’uomo e la malattia ha conosciuto fasi alterne, momenti in cui l’una forza è sembrata soccombere all’altra.

Tuttavia, anche nei momenti più bui, l’umanità è sempre riuscita a perpetuare sé stessa trovando, il più delle volte, soluzioni efficaci per sconfiggere i suoi mutevoli ed insidiosi malanni.

In passato, i migliori alleati del genere umano si sono rivelati lo spirito d’osservazione e le piante officinali.

E’stato proprio lo spirito d’osservazione, ad esempio, a far scoprire al medico ungherese Ignàc Semmelweis la causa della febbre puerperale che ogni anno decimava migliaia di neo mamme.

Così come le piante, con i loro principi attivi, hanno permesso di prevenire o guarire da malattie altrimenti letali.

Certo, da Ippocrate a Galeno, passando per la Scuola medica salernitana, fino ai conventi medievali con i loro Hortus simplicium, la medicina è lentamente progredita applicando un metodo empirico ante litteram.

Quando la scienza non aveva ancora occupato tutti i campi del sapere, a fare scuola infatti non erano i risultativi di laboratorio, ma l’osservazione e l’esperienza.

Pertanto, mancando d’incrollabili certezze, l’umanità antica affrontava i drammi collettivi delle epidemie a mani nude, muovendosi a tentoni alla ricerca di una salvifica via d’uscita.

A volte la soluzione vera, presunta o fallace arrivava in maniera accidentale.

Un caso singolare è quello conosciuto in Francia come l’ aceto dei quattro ladri.

Si tratta di una storia che risale al 1630, quando nella città di Tolosa imperversava un’implacabile pestilenza.

L’epidemia, com’è facilmente immaginabile, aveva messo in ginocchio la città. Tuttavia, come spesso accade, c’era chi era riuscito a trasformare la sventura in un’opportunità.

Era il caso di quattro ladri che, con disinvoltura, si muovevano tra i cadaveri, riuscendo impunemente a saccheggiare le case in cui il terribile morbo aveva seminato la morte.

La banda non si fermava né davanti ai moribondi, né davanti ai morti.

Quei corpi che la malattia aveva svuotato della vita, venivano afferrati e rivoltati senza scrupoli.

In molti cercavano quindi di capire quale fosse il lasciapassare concesso dalla peste ai quattro manigoldi.

Il segreto, come spesso accade, non era destinato a durare in eterno.

Così, un bel giorno, gli implacabili ladri vennero finalmente acciuffati, processati e condannati a morte. 

 Quando ormai stavano per essere avviati al patibolo, un giudice ebbe l’idea di convocare i quattro condannati per proporgli uno scambio: il loro segreto in cambio della vita.

L’offerta non poteva non allettare i condannati, che decisero quindi di svelare l’arcano.

Al giudice raccontarono, dunque, che a preservarli dal contagio era stato un liquido miracoloso che strofinavano su tutto il corpo.

La formula - che secondo il famoso erborista Maurice Mességué si troverebbe tuttora nell’archivio della città di Tolosa – era semplice, ma evidentemente efficace.

Per comporre la loro salvifica pozione, i quattro ladri facevano macerare nell’aceto, timo, lavanda, rosmarino e salvia.

Strofinatevi bene in tutte le parti del corpo – dissero al giudice– e passerete immuni attraverso tutte le epidemie che il diavolo manda”.

I quattro manigoldi avevano quindi usato piante, che solo nei decenni a venire, si sarebbe scoperto essere potenti antisettici.

La formula ovviamente, fece fortuna, tanto che un secolo dopo venne utilizzata, con l’aggiunta dell’aglio, durante l’epidemia di peste abbattutasi a Marsiglia.

Per i marsigliesi, tuttavia, la ricetta sarebbe da ascrivere ad un arabo che l’avrebbe data a quattro galeotti impiegati nella sepoltura delle vittime dell’epidemia  del 1720.

Qualunque sia la sua origine, l’aceto dei quattro ladri divenne un vero e proprio prodotto di drogheria, tanto da essere brevettato da un distillatore d’aceto, tale Maille che lo raccomandava a suore, preti e medici con il seguente suggerimento: “bevetene a digiuno una cucchiaiata in un bicchier d’acqua, strofinatevi per bene le tempie, quindi potrete recarvi tranquillamente a visitare i vostri malati”.

La formula segreta, che nel corso degli anni subì notevoli varianti, nel 1758 entrò a  far parte del Codice ufficiale del corpo medico francese.

La fortuna dell’aceto dei quattro ladri iniziò a scemare solo con l’avvento della farmacopea moderna ed a partire dal 1884 non venne più annoverata nel Codice della sanità militare transalpina.

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Le peste nera, l'epidemia che devastò l'Europa

Gli abitanti del grande villaggio creato dalla globalizzazione si sono, improvvisamente, sentiti schiacciati dal peso della paura.

L’angoscia ha viaggiato di pari passo con il coronavirus. Uomini e donne, soprattutto in Occidente, hanno, dall’oggi al domani, preso coscienza della loro impotenza.

Sono bastate poche settimane, a volte una manciata di giorni, per far crollare i miti che hanno cullato un’intera generazione: ovvero la libertà senza limite e l’onnipotenza della scienza.

La clausura coatta e la balbuzie degli scienziati hanno lasciato lo ”homus occidentalis” nudo, disorientato, improvvisamente privo di certezze.

Così, giorno dopo giorno, sono riaffiorate vecchie paure che si pensava appartenessero ai secoli in  cui l’essere umano non conosceva le semplificazioni offerte della tecnica e la vita era una scommessa quotidiana con l’imponderabile.

Secoli in cui le malattie falcidiavano bambini e vecchi con inesorabile puntualità.

Si sono quindi rifatti vivi spettri che si pensava relegati nei polverosi scaffali delle biblioteche. Fantasmi che ricordano che, in diverse occasioni, le epidemie hanno fatto temere al genere umano di non poter più perpetuare sé stesso.

Tra gli episodi più nefasti, gli storici hanno spesso ricordato il flagello della peste nera, la catastrofe  che, tra il 1347 e il 1353, spazzò via tra un terzo e la metà della popolazione europea.

Ieri, come oggi, la morte fu, in parte, il risultato dei progressi che avevano permesso al mondo di allora di essere connesso attraverso i traffici e le reti disegnate dai mercanti, soprattutto, Genovesi e Veneziani.

Anche in quell’incipiente crepuscolo del Medioevo, il nemico invisibile arrivò dall’Oriente e in pochissimo tempo si diffuse grazie alle rotte marittime, ai mercanti, ai pellegrini ed a quella caotica e irrequieta umanità che solcava le strade del Vecchio Continente.

Partita dalle steppe asiatiche, dove era comparsa negli anni Venti del XIV secolo, la peste giunse in Crimea.

Da qui, nel 1347, gli abitanti della colonia genovese di Caffa, la portarono a Messina, in Calabria e nei porti in cui le navi scaricavano uomini e mercanzie.

Da quel momento, il contagio si diffuse con sconcertante rapidità nel resto d’Italia, quindi in Francia, Spagna e Balcani.

In poco meno di due anni, l’epidemia raggiunge Polonia, Scandinavia, Inghilterra e Irlanda per proseguire il suo cammino, tra il 1350 ed il 1353, in Germania e Russia.

La società dell’epoca si trovò alle prese con un nemico spietato che mieteva vittime senza distinzione d’età o classe sociale.

Quando i morti iniziarono ad accatastarsi, nelle città come nella campagna - così com’è accaduto ai nostri giorni - si cercò di limitare i movimenti di  uomini e merci e di migliorare le condizioni igieniche.

Le città medievali, affollate e sporche, avevano infatti contribuito non poco ad agevolare la diffusione del contagio.

Le conseguenze della malattia furono aggravate da un eccesso di popolazione e dalla limitatezza delle risorse disponibili, soprattutto alimentari.

In molti casi, la malnutrizione si rivelò una formidabile alleata dello Yersinia pestis.

L’epidemia, portata dai topi e veicolata attraverso le pulci presenti nella loro pelliccia*, fu causa di lutti, ma non solo.

Il contagio contribuì, infatti, a dare i natali al Decameron di Giovanni Boccaccio e a condizionare, per i secoli a venire, la storia economica dell’Europa.

I vuoti lasciati dalla peste crearono, infatti, le condizioni per una polarizzazione della ricchezza, con  il risultato che la proprietà terriera si concentrò nelle mani dei pochi superstiti.

La situazione si rivelò favorevole anche per le classi subalterne che beneficiarono di un aumento dei salari.

La grande quantità di terreni abbandonati, consentì ai contadini sopravvissuti di disporre di nuovi campi, molti dei quali gravati da meno obblighi feudali rispetto al passato.

Gli effetti della pestilenza si manifestarono anche sul paesaggio. Molti villaggi, ormai spopolati, caddero in rovina ed i campi, rimasti incolti, furono sopraffatti dalla natura.

Niente fu più come prima.

Non a caso, per alcuni storici, le conseguenze prodotte dalla peste furono tali da scuotere e scardinare definitivamente il mondo medievale, dando l’abbrivio ai fasti del Rinascimento.

 

* Uno studio condotto nel 2017 dalle università di Oslo e Ferrara ipotizza che la diffusione della peste sia da attribuire ai pidocchi

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Il coronavirus, la mascherina e la gioia di vivere

La rapida e insidiosa diffusione del coronavirus, nel volgere di una manciata di giorni, ha sconvolto la vita di milioni di persone che, dall’oggi al domani, hanno dovuto rimodellare la propria quotidianità, tenendo conto di piccole e grandi prescrizioni.

Il virus ha portato alla ribalta prodotti ed oggetti prima relegati ad ambiti professionali ben definiti.

Un posto d’onore l’ha, sicuramente, conquistato la mascherina, croce senza delizia degli italiani.

Il dispositivo che, con l’esplosione della pandemia, è diventato introvabile, poi venduto a costi accessibili al sultano del Brunei, infine distribuito a prezzo calmierato, ma solo nella fantasia del commissario Arcuri, è entrato, giocoforza, nella vita di ciascuno.

Oltre ad arginare, si spera, la diffusione del contagio, la mascherina ha permesso di rivelare l’esistenza di tre macroaree caratteriali in cui possono essere classificati gli italiani.

La prima, quella che potremmo definire anonima, usa la mascherina senza nessun tocco di fantasia, limitandosi banalmente a seguire le prescrizioni.

La seconda, quella ipocondriaca, di cui fanno parte quanti indossano la mascherina al mattino, quando entrano in doccia; continuano a portarla, forse nel timore che il contagio possa viaggiare sulle frequenze radiofoniche, anche quanto sono in auto in completa solitudine e non la leverebbero neppure se si perdessero nel deserto del Gobi.

Infine, la terza categoria, quella dei disinvolti, uomini e donne che, con tutta evidenza, hanno fatto dell’originalità il loro tratto distintivo e temono l’anonimato più del coronavirus. Se ci fosse, il premio fantasia, andrebbe a loro, perché sono riusciti a trasformare un banale dispositivo di protezione, in un vero e proprio accessorio, un oggetto cool destinato a sopravvivere all’emergenza. Costoro non riusciranno più a farne a meno, lo s’intuisce da come la ostentano. Li si incontra per strada, con la mascherina sulla testa, sul collo, attaccata al braccio, appesa ad un solo orecchio o tenuta in mano, quasi fosse una borsetta griffata.

Sono proprio loro, le persone à la page, con le loro mascherine inamidate che non hanno mai sfiorato un labbro, che restituiscono alle persone comuni la gioia di vivere e la certezza che, alla fine, andrà tutto bene.

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"Il vecchio delle castagne" del serrese Mirko Tassone tra i migliori racconti italiani inediti

Si intitola "Il vecchio delle castagne" ed è ispirato ai ricordi di un canuto vegliardo che, ogni anno, accompagnato da un somaro, arrivava a Serra San Bruno per vendere castagne, il racconto con il quale il giornalista Mirko Tassone ha trionfato nella sesta edizione del “Premio letterario Cultora” e che oggi è stato inserito nell’antologia “I racconti di Cultora” che racchiude i migliori racconti italiani inediti.

La storia del racconto, il cui filo conduttore è il tempo, nelle sue diverse declinazioni, si dipana in un universo che si affanna a conservare se stesso, a dispetto di una modernità molesta e irriverente.

Nel racconto affiora, quindi, la vita di un paese di montagna di cui il giornalista è originario, con le massaie impegnate ad allestire la dispensa in vista dell'inverno ed i bambini, il cui caotico scorrazzare sull'acciottolato, è momentaneamente interrotto dal passaggio del somaro con in groppa le gerle cariche di castagne.

Non manca, infine, la ricostruzione dell'atmosfera di una vecchia osteria, o meglio in una delle tante "cantina" serresi spazzate via dall'inesorabile incedere del tempo che, con una enormità di dettagli, con i suoi gusti, odori e sensazioni, fissa nero su bianco quegli straordinari elementi della memoria che si chiamano ricordi.

La Sesta edizione del Concorso Letterario Cultora ha confermato – qualora ce ne fosse stato bisogno - uno straordinario Mirko Tassone, capace di scandagliare nel passato attraverso le immagini, scolpire nel presente con i ricordi e preservare il tutto per il futuro con preziose informazioni. Il merito del concorso è quello di essere un grande mezzo di aggregazione culturale capace di unire centinaia di scrittori, esordienti e non, di tutta Italia. Un appuntamento importante, grazie al quale gli autori esprimono il loro spirito e attraverso racconti inediti, offrono al lettore storie, sensazioni, esperienze che, ora, grazie al supporto cartaceo diventano eterne e condivisibili.

Cultora è un portale di informazione culturale indipendente aggiornato quotidianamente con news e approfondimenti di letteratura, cinema, media, tecnologie e arte. Il sito nasce dalle case editrici Historica e Giubilei Regnani. Ad oggi collaborano una sessantina di giornalisti e scrittori ed il sito si sta affermando come uno dei più importanti nel panorama letterario degli ultimi anni. Bruno Vellone

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Ortigia, la nave maledetta che fece strage di emigrati calabresi

C’è un mondo ormai scomparso, perduto nelle nebbie della tecnica e del progresso. E’ il mondo dei vecchi marinai che, su legni malfermi, affrontavano l’ignoto sfidando i capricci del mare. Il loro sforzo prometeico era accompagnato da vecchie credenze e arcaiche superstizioni.

Per gli uomini di mare, infatti, ogni nave aveva un’anima, racchiusa nella polena. Era proprio alla decorazione sospesa sulla prua, che veniva affidato l’arduo compito di proteggere l’equipaggio durante i perigli della navigazione. La polena, però, non svolgeva sempre la funzione per la quale era stata costruita. In alcuni casi, si rivelava infausta, a tal punto da attrarre sventure d’ogni sorta.

Quando ciò accadeva, la nave era considerata maledetta.

 Nel lungo elenco delle imbarcazioni sciagurate, figura l’Ortigia, un piroscafo protagonista di numerose collisioni che, in poco più di un ventennio, manderanno al Creatore oltre 400 persone.

Varata nel 1873, nei cantieri navali Luigi Orlando di Livorno, l’Ortigia prende il mare nel 1875.

Che sia nata sotto una cattiva stella, lo s’intuisce quando la società armatrice fallisce, prima che abbia toccato l’acqua.

Come se non bastasse, il piroscafo, nel frattempo noleggiato alla Florio vapori postali di Palermo, durante le manovre in porto danneggia tre imbarcazioni. Si tratta di piccoli incidenti che, tuttavia, iniziano a cucirgli addosso una fama che diverrà ben presto sinistra.

Le prove generali dei grandi disastri di cui sarà protagonista, l’Ortigia le fa il 22 agosto 1879, quando all'altezza di Capo Mele, non lontano da Savona, si scontra con il bastimento Maria Concetta, che cola a picco e trascina con sé il suo capitano. Il resto dell’equipaggio, invece, riesce miracolosamente a mettersi in salvo.

L’Ortigia, quindi, si era già fatta una certa nomea, quando provocherà la prima grande sciagura che metterà fine all’esistenza di numerosi emigrati calabresi e molisani che sognavano di raggiungere il Brasile.

Sono le 3 di notte del 24 novembre 1880, quando, in prossimità delle isole del Tino e della Palmaria, nel golfo di La Spezia, l’Ortigia manda in fondo al mare l’Oncle Joseph; un piroscafo francese con a bordo 33 membri d’equipaggio e 264 passeggeri (82 donne e 24 bambini) che avrebbero dovuto raggiungere Genova per imbarcarsi sul postale Berlin diretto a Rio de Janeiro.

Lo scontro provoca una falla nella fiancata dell’Oncle Joseph. In pochi minuti, l’acqua si riversa nella stiva e coglie nel sonno la gran parte dei passeggeri.

La notizia del naufragio viene battuta dall’agenzia Stefani, che scrive: “Stamane alle ore 3 il piroscafo Ortigia ha incontrato e colato a fondo il piroscafo francese Oncle Joseph a poca distanza da Spezia”.

Gli sforzi compiuti dall’equipaggio dell’Ortigia, che mette in acqua lance e salvagente, non riescono a contenere l’entità della tragedia, cui, secondo il resoconto fornito dalla Gazzetta Livornese del 26 novembre 1880, scamperanno 23 membri dell’equipaggio e 35 passeggeri.

Tra i 239 morti, molti sono calabresi.

Lo s’intuisce anche da un primo sommario elenco, composto da 20 superstiti, pubblicato dalla Gazzetta Livornese, nel quale figurano sette calabresi, compresa una bambina di appena due anni.

Dopo la strage dell’Oncle Joseph, l’Ortigia continuerà a mietere vittime con implacabile puntualità.

Nel 1885, infatti, si scontra con il battello francese Martignan e provoca 12 morti.

Cinque anni più tardi, in un altro incidente, questa volta con un bastimento norvegese, muoiono 5 persone.

L’ultima sciagura si verifica all’1,30 del 21 luglio 1895.

L’Ortigia aveva da poco lasciato Genova, con destinazione Massaua, in Eritrea, quando nei pressi dell’isola di Tino, quasi nello stesso punto in cui si era verificato l’impatto con l’Oncle Joseph, si scontra con la Maria P., un piroscafo di 53 metri di lunghezza, costruito a Sunderland, in Inghilterra, nel 1886.

Con i suoi 17 membri d’equipaggio, la Maria P. era partita da Napoli per portare a Genova 173 passeggeri, molti dei quali calabresi.

Una volta raggiunto il porto della città ligure, la gran parte dei migranti avrebbe dovuto imbarcarsi sul piroscafo Sud America diretto in Argentina. Una piccola aliquota, invece, aveva acquistato il biglietto per salire a bordo di un bastimento francese destinato ad approdare in Nord America.

L’impatto tra le due navi è violentissimo, ne offre un resoconto Il Secolo XIX del 22 luglio 1895: “Le lamiere della Maria P. si stracciarono sotto l’urto e la prua della nave investitrice si infilò per circa sei metri nella fiancata all’altezza del fumaiolo. Una parte della struttura di coperta cadde sul ponte; le sartie dell’albero vennero strappate”.

La gran parte delle vittime non si accorse neppure di quanto stesse accadendo. Nell’edizione del 22 luglio, La Stampa, scrive: “La  Maria P., come un cavallo ferito, si drizzò,mentre l'acqua con ruggito funereo penetrava per lo squarcio. […] I passeggeri dormivano tutti, per modo che moltissimi annegarono nelle loro stesse cabine”.

In poco meno di tre minuti la Maria P. cola a picco, trascinando in fondo al mare quasi tutti i passeggeri.

Il 23 luglio, La Stampa riporta la testimonianza di un “contadino meridionale” scampato al disastro: “Dormivo nella mia cuccetta quando ad  un tratto sentii una scossa così terribile che mi lanciò ignudo come stavo fuori dal letto, risalii in terra per sapere cosa era accaduto. Sentivo un rumore confuso, immenso assordante; il piroscafo tremava come una persona  viva[...]intorno a me tutti gridavano, le donne piangevano, strillavano stringendosi i bambini, afferrando gli uomini per le gambe, per il collo, senza sapere quello che si facevano; molti son morti perché non si sono mossi”.

Rispetto alla tragedia dell’Oncle Joseph, è stato possibile reperire la lista dei naufraghi pubblicata, il 29 luglio 1895, dal ministero della Marina.

L’elenco ufficiale, parla di 150 vittime tra i passeggeri e due tra i membri dell’equipaggio.

Nel triste computo dei morti figurano ben 34 calabresi (originari di: Roccella Jonica, Gioiosa Jonica, Taverna, Fuscaldo, Campana, Lattarico, Fiumefreddo, Paola, Castrovillari, Acri, Lungro, Firmo, Acquappesa, Scalea, Tropea, Spilinga e Arena. Per conoscere i nomi clicca qui), tra cui 10 bambini di età compresa tra 0 e 13 anni.

In alcuni casi, la sciagura inghiotte intere famiglie. E’ il caso, ad esempio di Ilario Cosmo Varano, un fuochista di 33 anni originario di Roccella Jonica, che perde la vita insieme alla moglie Caterina Dario ed ai figli Domenico, di 11 mesi ed Elvira, di tre anni.

Non meno triste la sorte di due donne: Maria Basile di Fuscaldo e Carmela Davoli di Taverna, che periranno con i loro figli, rispettivamente, Francesco ed Anna Maria Mazzei, di 7 e 14 anni e Umberto e Rosa Cosentino, di 14 anni l’uno e pochi mesi l’altra, mentre sono in viaggio per raggiungere i mariti già emigrati.

Alle storie di straordinaria sfortuna, se ne contrappongono altre in cui la sorte è stata meno cinica.

Sono quelle di nove passeggeri e due membri dell’equipaggio (originari di: Nicotera, Tropea, Pizzo Calabro, Scalea, Guardia Piemontese, Paola e Falconara Albanese. Per conoscere i nomi clicca qui), miracolosamente scampati alla sciagura.

L’ennesimo disastro, bollerà definitivamente l’Ortigia con il marchio di nave maledetta.

Da allora, nessun equipaggio vorrà più salirvi a bordo.

L’armatore, infatti, sarà costretto ad abbandonarla nelle mani degli assicuratori che, a loro volta, la venderanno alla compagnia di Navigazione Italia.

Per esorcizzarne la maledizione, i nuovi proprietari la ribattezzeranno Adria.

Con il nuovo nome, quella che era stata l’Ortigia rimarrà in mare, tra mille vicissitudini, fino al 1918, quando, alle 6,45 del 19 luglio, nelle acque del Canale di Sicilia, il sommergibile tedesco UB50 metterà fine alla sua tragica ed inverosimile esistenza.

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L’età post ideologica e la dittatura del pensiero unico

L’ età post ideologica è un imbroglio.

La pretesa fine dei grandi sistemi ideali che hanno caratterizzato il Novecento, è una colossale bufala.

Con la caduta del muro di Berlino, non sono finite le ideologie, solo una di esse: quella comunista.

A rimanere in piedi ed a prendere il sopravvento è stata, quindi, l’ideologia liberale, in assoluto la più vecchia.

Come un novello Dorian Gray, il liberalismo è riuscito a cambiare volto ed a dissimulare tutte le sue rughe.

A partire dagli anni Novanta, il modello liberale ha rotto gli argini. Si è prepotentemente insinuato nella vita delle persone ed ha plasmato l’epoca in cui viviamo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Stipendi da fame, contrazione dello stato sociale e polarizzazione della ricchezza, sono solo alcune delle conseguenze prodotte da politiche economiche partorite da un’ideologia che pretende di far ordinare il mondo ad una mano invisibile. Una mano, talmente invisibile, che nessuno ne percepisce la presenza.

Ad arginare l’ascesa delle politiche liberali e liberiste, in questi anni, non c’è stato nessuno.

Una situazione paradossale, ma non casuale.

La retorica post-ideologica e la spersonalizzazione dell’ideologia al potere, hanno creato, infatti, l’idea che all’attuale sistema non ci siano alternative.

Complice l’imponente apparato propagandistico di cui dispone, il potere è riuscito a perpetuare se stesso.

La subdola tirannia del pensiero unico è stata, ulteriormente, rafforzata con  lo smantellamento delle sovrastrutture e la creazione di una società liquida.

Il mondo dominato dal relativismo e dall’assenza di valori condivisi è stato, infatti, funzionale alla nascita dell’homo oeconomicus, ovvero il migliore alleato dell’oligarchia dominate.

Passando per la post ideologia si è approdati, quindi, alla post politica. La nostra epoca è  segnata, infatti, dall’idea che i partiti politici debbano essere dei semplici contenitori la cui funzione non è realizzare  programmi, ma conquistare e mantenere il potere. 

Di post in post, si è arrivati, infine, alla post verità, con l’ovvio corollario che ciò che conta non è la verità, ma solo la sua percezione.

L’importante, benintéso, è che sia espressa in un post, ovvero nel modo più efficace per mortificare l’intelligenza umana.

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Caserma del Comando provinciale dei Carabinieri di Crotone: un'incompiuta, compiuta, ma mai consegnata

Il giornalista Mirko Tassone scrive che: “peggio di un’opera pubblica mai completata, c’è solo un’opera pubblica completata ma mai consegnata alla comunità, con il rischio di essere condannata a subire i segni del tempo che passa.”

È il caso dell’immobile, nuovo di zecca, edificato a Crotone, nella zona di nuova espansione, la Crotone 2, sulla via Gioacchino da Fiore, di fronte alla sede provinciale della Croce Rossa e a quella dei Vigili del Fuoco. Sto dicendo dell’imponente ed elegante fabbricato destinato, almeno così si è sempre detto da più parti, a Caserma del Comando provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Crotone, ma ancora non consegnato.

Sono già almeno tre anni che l’edificio è bello e completato in tutte le sue parti, in quella esclusivamente militare ed amministrativa ed in quella residenziale con un bel numero di edifici destinati agli alloggi dei militari single e a quelli con famiglia. Vogliamo che anche questa gigantesca infrastruttura diventi altra cattedrale nel deserto con tanto di enorme spreco di risorse pubbliche? Ricordiamo che negli anni passarti e per molti anni la sede del Comando provinciale dei Carabinieri è stata allocata tra via IV Novembre e largo I Maggio in edifici presi in fitto, insomma l’unica Caserma di livello provinciale allocata in edifici di proprietà privata e sistemati a piano interrato e 1° piano. Per la cronaca ricordiamo che solo da pochi anni la detta Caserma ha trovato sede nei vecchi edifici delle Ferrovie dello Stato adiacenti alla stazione ferroviaria e dove, fin quando i treni viaggiavano con regolarità dalle nostre parti, funzionava una mensa per i ferrovieri.

Orbene, la sede, o presunta tale, di via Gioacchino da Fiore, la lasceremo in pasto a vandali o similari, l’abbandoneremo come la Caserma dell’Esercito di Cutro? Si chiederà un cambio di destinazione d’uso o cos’altro.?Altrimenti altro enorme spreco di risorse pubbliche!

 

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