Monsignor Peronaci, il primo vescovo serrese

Tanto ha ricevuto ed altrettanto ha dato alla Chiesa. Serra San Bruno ad un uomo di Chiesa deve non solo una parte del nome, ma la sua stessa origine. Il legame tra il centro delle Serre e Santa romana chiesa, nel corso dei secoli, si è arricchito di continui scambi e reciproci tributi. Da parte sua, Serra ha ripagato il suo “debito” offrendo un numero considerevole di prelati che, in alcuni casi, sono riusciti ad assurgere al vertice delle gerarchie vaticane. Nella nutrita schiera di uomini di fede serresi, ben cinque hanno, infatti, rivestito cariche vescovili. Il primo è stato Domenico Antonio Peronaci. Nato il 23 gennaio 1682, manifesta fin da bambino la sua vocazione. Una volta ordinato sacerdote, il 29 febbraio 1708, parte alla volta di Napoli dove, nel 1717, si laurea "in utroque iure". Le qualità di Peronaci vengono apprezzate da un altro calabrese, lo squillacese, Giovanni Romano che, prima di diventare arcivescovo di Catanzaro, si trova a Frascati in qualità di vicario del cardinale Lorenzo Orsini, il futuro papa Clemente XII. Dopo aver fornito buona prova nel ruolo di vicario delle diocesi dell'Aquila e di Urbino, a Peronaci, il 17 novembre 1732, viene conferito il vescovado di Umbriatico. Il compito che lo attende è arduo, tanto più che il predecessore, Filippo Amato, è morto avvelenato nella notte tra il 3 ed il 4 agosto. Dopo la cerimonia di consacrazione, celebrata in Vaticano il 28 dicembre, Peronaci prende possesso della sua sede il 1 febbraio 1733. Salutato da una calorosa accoglienza, appena giunto nella sede del suo apostolato, il nuovo vescovo mette in campo tutta la sua energia per cercare di far fronte agli innumerevoli problemi che gli si presentano quotidianamente. La sua attività è tale che ben presto trova unanime apprezzamento, sia tra i fedeli, che tra le gerarchie vaticane. Nel gennaio 1750, viene eletto prelato assistente al soglio pontificio da papa Benedetto XIV. Insieme all'attività pastorale Peronaci conduce una brillante attività di studio e ricerca che culmina nella pubblicazione a Napoli, nel 1754, della "Dissertazione intorno all'ordinazione dei chierici". Tra le suo opere spicca, inoltre, il "De aleinationibus rerum ecclesiarum et de controverisi jurisditionalibus". Del lungo apostolato, durato ben 43 anni, rimane notizia, soprattutto, attraverso le relazioni 'ad limina' che Peronaci invia a Roma con cadenza triennale e dalle quali emerge il suo impegno a favore dei numerosissimi poveri della diocesi. Non mancano, inoltre, le azioni rivolte a "disciplinare" i sacerdoti, ripetutamente invitati ad assumere un contegno esemplare poichè, ama ripetere, il “popolo capisce più il gesto che la parola”. Tra i principali motivi di preoccupazione ci sono gli albanesi stanziati nei tre casali di San Nicola dell'Alto, Carfizzi e Pallagorio, definiti nella relazione del 6 ottobre 1735 "Gens haec genus hominum subdolum, et infidum universim". Ciò che maggiormente turba il vescovo serrese è la ritrosia degli albanesi ad abbandonare il rito greco per abbracciare quello latino. Tra le sue opere si annoverano, inoltre, l'ampliamento del seminario diocesano, il restauro del palazzo episcopale e l’edificazione, nel 1753, in località Mandorleto di Cirò di un edificio destinato al “ristoro dei vescovi”. Gli ultimi anni della sua esistenza sono segnati dalla nostalgia per Serra. In una lettera dell'11 settembre 1771 scrive: "per mancanza di buon’aria sono nella dura necessità di fare ogni anno penosissimo viaggio di tre giorni nell'andare all'aria natia nei mesi estivi e di quattro indi nel restituirmi alla residenza […] al presente per la mia età decrepita e pe' continui acciacchi di gotta, consumato di forze, mi vedo inabilitato [...] prego reverentemente VS Ill.ma a volersi benignare di farmi meritare [...] l’indulto della residenza per quel tempo, che mi rimane di vita, che prevedo brevissimo”. La sua preghiera, però, non viene accolta ed il 5 febbraio 1775 muore nel palazzo che aveva fatto costruire in contrada Mandorleto. Il suo corpo viene portato ad Umbriatico, con una lettiga, per essere sepolto. A Serra rimane il fantastico portale in granito della sua dimora che sorge nella piazza che porta il suo nome. Dirimpetto, la fontana, un tempo installata nel cortile del palazzo, che i serresi chiamano, ancora oggi, la “funtana di Bonsignuri”, ovvero del monsignore.

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