Il 13 ottobre 1815 a Pizzo veniva fucilato Gioacchino Murat
Il 13 ottobre 1815 Gioacchino Murat venne fucilato a Pizzo, epilogo di una vita dai molti mutamenti. Avventuroso e coraggioso cavalleggero, percorse rapidamente i gradi dell’esercito rivoluzionario, poi napoleonico; sposò Carolina Bonaparte; venne elevato a granduca di Berg, e nel 1808 a re di Napoli. Napoleone, che ben conosceva la geopolitica e la storia, non osò pensare di annettersi il Meridione d’Italia come fece con Torino, Genova, Firenze e la stessa Roma; o di governarlo direttamente come con Milano, Venezia e Bologna; ma ne riconobbe l’identità con un sovrano indipendente. Cosa pensasse Napoleone delle indipendenze altrui, è facile immaginarlo. Altro era il pensiero di Murat, che appuntò le sue ambizioni a rendere davvero suo il Reame che gli era toccato quasi per caso; e tenere a bada l’ingombrante cognato. Per far ciò, sperò di potersi impadronire della Sicilia, dove regnava Ferdinando con l’invincibile sostegno navale britannico; e intanto usò l’appellativo di Due Sicilie, che nel 1816 diverrà effettivo con il Borbone. Deposta quest’ aspettativa, che poteva realizzarsi solo se Napoleone avesse sconfitto e occupato la Gran Bretagna stessa, mirò a rafforzarsi nel dominio effettivo che aveva. Gli occorreva un partito a suo sostegno, e lo cercò nella borghesia e nobiltà pervase di più o meno fondate ideologie illuministiche; e desiderose di mettere le mani sui beni ecclesiastici e demaniali. Creò un ceto di proprietari e latifondisti difesi dal Codice Napoleone, che tutelava soprattutto la proprietà privata. Per favorirli con ogni assetto legale, trasformò in Comuni quelli che prima erano solo casali delle “Universitates” maggiori; con sindaci e decurioni tratti dalla borghesia. Si avvide che il Meridione non aveva una classe dirigente, come non l’ha tuttora, e si diede a formarla, cominciando dall’esercito. Con un atto che irritò molto Napoleone, impose ai generali francesi del suo seguito di prendere la cittadinanza napoletana, o andarsene. In pochi anni, condusse ai gradi più elevati molti e valenti regnicoli, che diedero buona prova di sé e combattendo l’insorgenza borbonica e popolare, e nelle spedizioni in Russia, Germania, Lombardia e nell’ultimo scontro di Tolentino; i Pepe, Carascosa, Filangieri, Colletta... Ad altri si aprì la strada della carriera burocratica. La classe militare murattiana visse e operò fino al 1848-9, ma non fece discepoli, come ben si vide nel 1860; la burocrazia non si rinnovò. Dopo Lipsia, Murat tentò di separare il suo destino da quello di Napoleone, e nelle prime fasi del Congresso di Vienna i suoi rappresentati vennero ammessi alle trattative accanto a quelli di Ferdinando come re di Sicilia; accortosi che gli accordi tra Austria e Gran Bretagna erano per la rinuncia inglese alla Sicilia in cambio di Malta, e quindi per il ritorno del Meridione ai Borbone sotto la protezione austriaca, provò senza successo la guerra. Il colpo di testa che lo condusse alla morte fu forse una trappola delle due Casate borboniche di Parigi e di Napoli, che potevano avvertire entrambe la sua presenza come una minaccia. Fu condannato in maniera del tutto legale; la legge che lo ordinava era stata promulgata da lui e mantenuta, come molte altre, da Ferdinando.
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