Il 13 ottobre 1815 a Pizzo veniva fucilato Gioacchino Murat

Il 13 ottobre 1815 Gioacchino Murat venne fucilato a Pizzo, epilogo di una vita dai molti mutamenti. Avventuroso e coraggioso cavalleggero, percorse rapidamente i gradi dell’esercito rivoluzionario, poi napoleonico; sposò Carolina Bonaparte; venne elevato a granduca di Berg, e nel 1808 a re di Napoli. Napoleone, che ben conosceva la geopolitica e la storia, non osò pensare di annettersi il Meridione d’Italia come fece con Torino, Genova, Firenze e la stessa Roma; o di governarlo direttamente come con Milano, Venezia e Bologna; ma ne riconobbe l’identità con un sovrano indipendente. Cosa pensasse Napoleone delle indipendenze altrui, è facile immaginarlo. Altro era il pensiero di Murat, che appuntò le sue ambizioni a rendere davvero suo il Reame che gli era toccato quasi per caso; e tenere a bada l’ingombrante cognato. Per far ciò, sperò di potersi impadronire della Sicilia, dove regnava Ferdinando con l’invincibile sostegno navale britannico; e intanto usò l’appellativo di Due Sicilie, che nel 1816 diverrà effettivo con il Borbone. Deposta quest’ aspettativa, che poteva realizzarsi solo se Napoleone avesse sconfitto e occupato la Gran Bretagna stessa, mirò a rafforzarsi nel dominio effettivo che aveva. Gli occorreva un partito a suo sostegno, e lo cercò nella borghesia e nobiltà pervase di più o meno fondate ideologie illuministiche; e desiderose di mettere le mani sui beni ecclesiastici e demaniali. Creò un ceto di proprietari e latifondisti difesi dal Codice Napoleone, che tutelava soprattutto la proprietà privata. Per favorirli con ogni assetto legale, trasformò in Comuni quelli che prima erano solo casali delle “Universitates” maggiori; con sindaci e decurioni tratti dalla borghesia. Si avvide che il Meridione non aveva una classe dirigente, come non l’ha tuttora, e si diede a formarla, cominciando dall’esercito. Con un atto che irritò molto Napoleone, impose ai generali francesi del suo seguito di prendere la cittadinanza napoletana, o andarsene. In pochi anni, condusse ai gradi più elevati molti e valenti regnicoli, che diedero buona prova di sé e combattendo l’insorgenza borbonica e popolare, e nelle spedizioni in Russia, Germania, Lombardia e nell’ultimo scontro di Tolentino; i Pepe, Carascosa, Filangieri, Colletta... Ad altri si aprì la strada della carriera burocratica. La classe militare murattiana visse e operò fino al 1848-9, ma non fece discepoli, come ben si vide nel 1860; la burocrazia non si rinnovò. Dopo Lipsia, Murat tentò di separare il suo destino da quello di Napoleone, e nelle prime fasi del Congresso di Vienna i suoi rappresentati vennero ammessi alle trattative accanto a quelli di Ferdinando come re di Sicilia; accortosi che gli accordi tra Austria e Gran Bretagna erano per la rinuncia inglese alla Sicilia in cambio di Malta, e quindi per il ritorno del Meridione ai Borbone sotto la protezione austriaca, provò senza successo la guerra. Il colpo di testa che lo condusse alla morte fu forse una trappola delle due Casate borboniche di Parigi e di Napoli, che potevano avvertire entrambe la sua presenza come una minaccia. Fu condannato in maniera del tutto legale; la legge che lo ordinava era stata promulgata da lui e mantenuta, come molte altre, da Ferdinando.

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Il marchese Vito Nunziante e l'azienda agricola di San Ferdinando

Olio, grano, liquirizia, seta e robbia rappresentavano il 75% delle esportazioni dell'intero Meridione. L’agricoltura, come lo era da secoli, rimaneva una delle poche fonti di lavoro della Calabria. La mancanza di strade rendeva la regione praticamente isolata rispetto ai principali mercati. Le zone di mare, invece, avevano avuto modo di svilupparsi grazie ai porti da dove partivano le navi dirette a Napoli. Il marchese Vito Nunziante, in qualità di proprietario di una compagnia di bastimenti a vapore, dopo aver valutato  tutte le situazioni fece delle terre disboscate una grande e attrezzata azienda agricola “cum bosco della Lamia”. Con una mossa strategica degna di un grande imprenditore il marchese, divenne il solo proprietario dei terreni bonificati escludendo il comune di Rosarno.  Bisognava però mettere ancora mano sui terreni ed il Re, nel 1834, concesse a Vito il permesso di deviare il Mesima e di edificare una resistente diga. Con l'aiuto del botanico Gasparrini che studiò ogni cosa, presero il via i lavori di piantagione. Fichi d'India e varie altre piante iniziarono a colorare l'ambiente. Fu così introdotta la robbia utilizzata per produrre un pregiato colorante rosso, impiegato dall’industria tessile francese. Il  sommarco usato per la concia delle pelli, inoltre, fichi gelso delle Filippine, noci, pioppi e robinia; ma le colture più redditizie furono oliveti ed agrumi. Siamo in un periodo in cui l'olio era molto redditizio ed il suo valore aveva superato persino il grano in tutte le Due Sicilie. Duecentomila salme di olio per la bellezza di 5 milioni di ducati che riempivano le casse dello Stato e dei latifondisti. Nella Piana di Gioia, il principe di Gerace risultava il più ricco ed il più moderno nel lavoro delle olive tanto che il Serra si alleò con Emmanuel Appelt aprendo una agenzia a Palmi. Tuttavia, a causa dei torchi grossolani e dell’imperfetta molitura, i maggiori acquirenti dell'olio calabro erano i saponifici. Col tempo Nunziante migliorò qualità e lavoro ed acquistò macchine molto moderne. Dai dati rinvenuti, si apprende che, nel 1852, San Ferdinando produceva 400 mila” migliaia di portogalli”, le arance di Spagna, il frutto pregiato voluto da Nunziante. Le parole del Gasparrini motivano le ragioni di certe scelte: “ciò che accresce il prestigio di questa frutta nelle Calabrie, è che durante i lunghi viaggi per mare le medesime non mai si guastano”. In ragione dell’assenza dovuta alla carriera militare, Nunziante, a partire dal 1827, iniziò a cedere in fitto i terreni. Con la locazione, della durata di tre o quattro anni, il “massaro” doveva anticipare le sementi oltre ad impegnarsi a pagare eventuali danni, le spese e gli interessi. I “massari” secondo il giudizio di Nunziante erano:” fieri, rudi, talvolta un po' selvaggi ma buoni laboriosi e onesti”. Le “massare”, invece, tessevano la tela, filavano la lana, allevavano i filugelli, badavano alle galline e curavano i  maiali. Gli artigiani allettati da un certo benessere giunsero dai paesi vicini. Il decreto n. 5937, del 20 gennaio 1840, sanciva che i cittadini nati e domiciliati a San Ferdinando erano esenti dal servizio militare. Grazie alla nascita dell'Azienda Nunziante, la borgata divenne villaggio ed aggregata a Rosarno, mentre le famiglie dei “massari” vivevano nelle modeste case intorno al palazzo del Marchese. I rapporti con Nunzianate, ovviamente, erano prevalentemente di lavoro o dovuti a scambi di doni in occasione delle feste comandate. I braccianti, invece, vivevano nei pagliai lontano dalle case in muratura. Nel 1821 venne costruito il mulino di Trentinella e venne scavato un pozzo per l'acqua. Si decise che il villaggio dovesse avere un cimitero, nel quale, però, i corpi venivano gettati alla rinfusa. Il lavoro nell'azienda, seppur ben regolato, durava fino al tramonto e la campana chiamava alla preghiera in una chiesetta priva di tutto, ad eccezione del sedile riservato ai marchesi. L'azienda Nunziante era divenuta un vero punto di riferimento per le nuove tecnologie ed è così che nel 1833 il Re si fermò a San Ferdinando ospite del marchese. Vennero ingaggiati vanghieri per permettere al corteo reale di trovare le strade pulite. Il 18 aprile, Ferdinando giunse nel villaggio, ricevendo gli onori di casa da parte di Costanza Tripodi, giovane e bella ragazza che tenne compagnia alla Regina, la quale le fece il dono di un fazzoletto di seta turchese. Il Re si congratulò col Nunziante per la sua azienda, giudicata simile a quella di San Leucio. La visita si concluse con  un omaggio. Il sovrano, infatti, prima di partire volle donare al borgo una campana in bronzo che ancora oggi chiama i fedeli alla preghiera.

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La storia del Mezzogiorno borbonico inizia a Bitonto, intervista a Ulderico Nisticò

Suscita curiosità la commemorazione che si tiene, il 18 luglio, a Bitonto. Ne abbiamo chiesto a chi ne sa non solo come storico, ma come protagonista della manifestazione, Ulderico Nisticò.

 Quest’anno non ci sarò: il 18, programmata da mesi, terrò la presentazione del libro della Fazio e don Galeone. C’ero nel 2004, quando Laricchia s’inventò la celebrazione della battaglia che diede inizio alla nostra storia moderna.

 Non è che i libri di testo si dilunghino molto sull’argomento…

Già. È un episodio della Guerra di successione polacca, in realtà combattuta per togliere all’Austria l’eccessiva potenza in Italia. Un esercito spagnolo, guidato da Josè Carrillo conte di Montemar, sconfisse gli Austriaci, e portò sui troni di Napoli e Sicilia il duca di Parma, Carlo di Borbone. I trattati di pace del 1738 lo riconobbero sovrano indipendente dei sue Regni.

 Chiariamo per i lettori: sono intricate faccende dinastiche?

 Carlo era figlio di Filippo V di Borbone, che, pronipote di Luigi XIV, era stato riconosciuto re di Spagna; e della sua seconda moglie, Elisabetta Farnese duchessa di Parma. La Spagna rivendicava i suoi antichi possessi, ma si dovette contentare di un re sovrano: anzi i trattati sancirono esplicitamente che i troni italiani non dovevano mai più essere uniti a quelli spagnoli. Infatti quando Carlo nel 1759 diverrà re di Spagna, lascerà il figlio Ferdinando IV come re di Napoli e III come re di Sicilia.

 Dunque la storia del Mezzogiorno borbonico inizia a Bitonto.

 Merito di Francesco Laricchia, medico e storico, che volle la commemorazione, e, in vario modo ogni anno la ripete. Ricordiamo – dico le volte in cui mi è possibile esserci – la battaglia e le sue conseguenze storiche e politiche. A Bitonto si celebra anche il miracolo dell’apparizione della Madonna, che ordinò agli Spagnoli di non saccheggiare la città. Gli scettici insinuano che la città pagò un riscatto.

 Venne, molti anni dopo, eretto un solenne monumento con quattro eleganti lapidi in latino. Troppo lungo sarebbe qui il discorso

 Ce ne parlerà ancora in altra occasione?

 Volentieri. Ora basti un cenno a quella che afferma la valenza storica della battaglia, con l’espressione che Carlo affermò con la vittoria “Italicam libertatem”.

 L’indipendenza d’Italia? Accidenti, nel 1734!

 Vero; intanto rivendicando, sia pure nominalmente, Parma e la Toscana; poi quasi riprendendo la funzione di Napoli ai tempi del vicereame, centro dei domini spagnoli. Un’affermazione diciamo oggi virtuale, ma politicamente interessante.

 Fermiamoci, per ora, alla commemorazione dei Caduti austriaci.

 Laricchia la volle nel 2010; prese contatto con la Croce Nera di Vienna, istituto per le onoranze ai Caduti, e, ottenutane la partecipazione, pensò a una lapide e incaricò me di scriverla. È quella che è stata pubblicata qualche numero fa.

 Torneremo a trattare di re Carlo e di Bitonto?

 Sarà un piacere… e un dovere borbonico.

 

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L'enigma Filangieri e la valle dell'Ancinale

L’editore d’Amico ha pubblicato, in anastatica, la biografia “Carlo Filangieri” di Pietro Calà Ulloa, che fu ministro di Francesco II in esilio, e si dedicò agli studi storici. Il volume, per quanto palesemente datato, va letto per cogliere diverse notizie sulle vicende non solo e non tanto del Filangieri, quanto della storia del Reame da Murat al 1860. Troviamo Carlo Filangieri da Austerlitz a Lipsia alla Spagna al Congresso di Vienna, e via via fino alla fine del Regno. Qui io voglio trattare un aspetto che, a dire il vero, nel Calà Ulloa non compare, ed è invece di una certa importanza: Carlo Filangieri e la Valle dell’Ancinale. Nel 1817 egli ottenne, per i buoni uffici di una zia maritata Ravaschieri, i titoli, ormai solo nominali, di principe di Satriano e duca di Cardinale. Nelle cronache dell’Ottocento è conosciuto, secondo l’uso, come Satriano. Nel borgo affacciato sullo Ionio, i Ravaschieri avevano posseduto una fortezza, donde il nome dialettale di “Picocca” (bicocca) per indicare Satriano; e un grande palazzo a stento riconoscibile per abbandono, riuso e superfetazioni. Nel territorio di Cardinale il loro cespite più notevole era la Razzona, azienda in spagnolo, castelletto di caccia con attorno un vastissimo bosco. Vi si trovarono, nei secoli, pietre lavorate del neolitico, e ritenute magiche e cadute dal cielo: “i cugni e tronu”; si conservano in musei di Napoli, Crotone e Catanzaro. L’industria boschiva era esercitata con seghe idrauliche: “a serr’e l’acqua”.  Filangieri, che appare legato più a Cardinale, dove si recava spesso, che a Satriano, diede vita nella Razzona a una ferriera (“magone”). Il ferro era, diciamo così, la plastica dell’Ottocento, materiale solido e duttile. Si vuole che il primo ponte di ferro d’Italia e uno dei primissimi d’Europa, quello di Minturno sul Garigliano, sia stato prefuso a Razzona, e non, come di ripete, nella fabbrica statale di Mongiana. Ma le leggi del Regno, sempre troppo protezioniste, vietavano ai privati l’uso del ferro calabrese (Bivongi, Stilo, dal 1846 anche Agnana… ), riservato allo Stato; Filangieri importava il grezzo dall’Elba. Nel 1849 accettò l’incarico di riconquistare la Sicilia ribelle, e lo portò a termine alternando decise operazioni militari e accortezza politica, mirando ad accattivarsi la potente e superba nobiltà isolana. Urtò contro la grettezza di Ferdinando II e la palese ostilità di un Cassisi, la cui nomina a ministro della Sicilia stando a Napoli era un’offesa e per l’isola e per lo stesso Filangieri. Questi spese del suo, non ricevendo aiuti dal governo. Rinunciò infine, e si ritirò a vita privata. Nel 1851 Razzona aveva subito i danni di un’alluvione. Filangieri la offrì in vendita agli abbienti di Cardinale, e la comprò un Pelagi, i cui numerosi discendenti la posseggono molto parcellizzata. Molto tardivamente, e venendo a morte assai prima che non si aspettasse, Ferdinando affidò a Filangieri il figlio ed erede Francesco II. Qui si apre l’enigma Filangieri: egli assunse il governo, consigliò il ripristino della costituzione “sospesa”, ma anche trattative con il Regno di Sardegna e la Francia. Lasciò infine l’incarico e lo stesso Regno, passando a Marsiglia, da dove tornò solo a Due Sicilie cadute; morì nel 1867. Il titolo di principe di Satriano è estinto; quello di duca di Cardinale è tornato, per matrimonio, nel Ravaschieri. Forse Carlo si era convinto che la soluzione unitaria era non dico la migliore, ma la meno peggio, di fronte al pericolo di una repubblica mazziniana che doveva essere stroncata da interventi stranieri ben più duri. O non credette più alla possibilità che il Regno sopravvivesse. Resta allo storico di immaginare una grande battaglia nella pianura di Salerno tra il guerrigliero Garibaldi e l’uomo di scuola napoleonica Filangieri: e chissà chi avrebbe vinto; Filangieri non era Landi, Lanza, Ghio, e nemmeno il fedele e inetto Ritucci, bensì un grande soldato e uomo di coraggio; ma la storia reale la giocarono Cavour e Napoleone III, e il Regno e Garibaldi erano superati dai fatti. Una lapide, ritrovata da Mario Monteverdi, ricorda l’avventura industriale di Razzona: A Carlo Filangieri / Principe di Satriano / per animo e per ingegno / non dissimile a Gaetano svo padre / e per gli egregi svoi fatti di gverra / gloria e decoro delle napolitane milizie / il cavaliere Saverio Amirante / rettore di queste magone / in testimonio / di grato e devoto animo / l'anno 1856 / Francesco Antonio Stagliano' / esegvi'

 

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Quei due francesi uccisi a Serra e seppelliti a Spadola

Nelle lunghe e dure vicende della storia, due soldati morti possono non rappresentare molto. Non rappresenterebbero tanto, neppure, se venissero inseriti nel contesto, più circoscritto, delle guerre napoleoniche o del “decennio francese”  nel Regno di Napoli. Possono rappresentare molto, invece, quando il teatro in cui hanno perso la vita non è un campo di battaglia, bensì un pacioso centro abitato, famoso più per le odi a Cristo che per gl’inni a Marte. Il luogo in questione è Serra San Bruno, dove, il 2 marzo 1811, trovarono la morte due soldati francesi.

Il fatto è riportato nella “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice. Il retroterra della storia rimanda al saccheggio compiuto dai briganti nel 1807. Per evitare che l’episodio si ripetesse, il comando francese aveva deciso di dislocare a Serra un congruo numero di gendarmi, posti agli ordini del “celebra (sic!) Voster”.

I nuovi arrivati, come spesso accadeva con la soldataglia francese, non dovevano essere per nulla teneri con la popolazione civile. Voster, infatti, viene definito “uomo crudele, intrattabile, fiero, e ladro non dissimile alla Brigata di suo comando”.

La guarnigione francese, quindi, doveva essere composta, per la gran parte, da ribaldi interessati a cogliere tutti gli agi connessi alla loro condizione di occupanti. Tanto più, che i soldati transalpini “non accorrevano” neppure “alle Spedizioni” contro i briganti, “ma restavano nel paese a commettere mille bricconerie”.

I gendarmi, tanto restii a prendere parte alle attività condotte dalla Guardia Civica, erano, invece, velocissimi a mettere le mani su qualunque cosa desiderassero. A testimoniarne la rapacità, un episodio accaduto nei primi mesi del 1811, in prossimità della “Gurna di li bufali”, dove, nel corso di una delle tante operazioni condotte in quel periodo, gli uomini della Guardia Civica, erano riusciti a sbaragliare un gruppo di briganti ed a sequestrare un consistente bottino; “le quali cose tutte portate a Serra furono prese dal sud.to Voster e sua Brigata, restando alla Civica il trapazzo di averle prese”.

In questo contesto, incalzati dall’azione repressiva condotta dai militi serresi, il 2 marzo, tre briganti, per il tramite di “Raffaele Timpano del Paparello”, un “villano di Spinetto”, chiesero alle autorità cittadine un salvacondotto. Per uno strano scherzo del destino, quel giorno, in assenza di Voster il comando della piazza era stato affidato ad un tenente, tale Gerard. Il povero Timpano, probabilmente, indeciso sul da farsi, si era rivolto al giudice di pace, Bruno Chimirri, il quale accompagnato dal comandante della Guardia Civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, andò a cercare il tenente Gerard. Lo trovò nel suo alloggio, in compagnia del maresciallo Ravier.

I due, evidentemente, abituati a tenere un contegno tutt’altro che marziale, avevano riportato la peggio da un lauto convivio con Bacco. Completamente incapaci di analizzare la situazione, consegnata una pistola ciascuno a Chimirri e Peronacci, nonostante i cauti suggerimenti dei serresi, si avviarono verso la casa in cui i tre briganti aspettavano il salvacondotto.

Alticci ed altezzosi com’erano, arrivati sul posto, cercarono di fare irruzione, ma non ebbero il tempo di varcare la soglia della porta d’ingresso che vennero freddati a colpi di schioppo. Nel frattempo, a dare man forte, erano arrivati, gli uomini della Guardia Civica che, al termine di un sanguinoso scontro a fuoco, costato la vita al milite Domenico Jorfida, riuscirono ad uccidere i tre briganti. Ritornato al comando ed appresa la notizia, Voster dovette andare su tutte le furie, al punto da ritenere Serra, indegna di accogliere le salme dei suoi soldati. Dispose, quindi, di “donare” quei due corpi straziati dalle pallottole brigantesche alla comunità spadolese, affinché li inumasse nella sua chiesa. Al lungo corteo che accompagnava le salme di Gerard e Ravier fino a Spadola, presero parte i militari francesi, i “cittadini” di Spadola, nonché quelli di Simbario e Brognaturo che avevano reclamato, invano, ”l’onore” di poter avere “fra loro i due Campioni”.

La vicenda assunse tratti, farseschi, quando, restaurati i Borbone, gli abitanti di Spadola trovarono imbarazzante custodire nella loro chiesa i corpi di due nemici della corona. Così, corsero ai ripari ed in maniera piuttosto spiccia, li “dissotterrarono, e li buttarono nel fiume”.

Memori dell’alterigia con la quale, al grido di “campioni” avevano accolto le salme al tempo di Voster, i “Maestri ferrari delle forge della via di S. Rocco” ogniqualvolta vedevano arrivare uno spadolese, un simbariano o un brognaturese, “lasciavano il martello, e correndoli dietro gridavano e ripetevano Campioni, Campioni: tantoché i spadolesi specialmente, nel venire a Serra: eran costretti entrare per la via dello Schiccio”.

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L'Unità d'Italia e la confederazione mancata

 Un conato pietoso della cultura risorgimentalista fu quello di far credere che l’Italia sia stata “divisa nel Congresso di Vienna del 1815”, quando essa perse la sua unità nel 568, cioè 1247 anni prima, con la mancata conquista totale da parte dei Longobardi. Da allora, un turbinio di entità più o meno statali, e mutamenti di assetti e di confini. Più stabile il Meridione, ma dal 1282 si separò la Sicilia; infine, nel XVI secolo, parvero compatti alcuni Stati come Venezia, Milano, Firenze, la Chiesa e Napoli; ma presto molti finirono connessi a vario titolo alla Spagna, poi all’Austria. Nel XVIII secolo si può parlare di un recupero dell’indipendenza politica con Stati notevoli quali Regno di Sardegna, Granducato di Toscana e i due Regni di Napoli e di Sicilia, distinti ma almeno uniti sotto lo stesso sovrano; mentre Venezia decade. Si diffonde dovunque l’uso ufficiale della lingua italiana (“toscano”), per quanto debba di fatto convivere con latino, volgari regionali e francese illuministico poi giacobino e napoleonico. Con queste premesse, era palesemente un errore logico pretendere di unificare questi territori dalla così variegata storia, applicando all’Italia il modello della “Nation une et indivisible” della Francia che era da secoli effettivamente unita per la forza di una monarchia centralista. Andava piuttosto pensata una confederazione che evolvesse, in tempi ragionevoli, in federazione.  La propose l’Austria nel 1815, ma declinarono l’invito i re di Sardegna e delle Due Sicilie, timorosi di perdere anche formalmente un’indipendenza già precaria: gli Asburgo infatti possedevano direttamente o indirettamente Lombardia, Veneto, Trentino, Istria, Dalmazia; e influivano su Parma, Modena e Firenze; il papa Pio VII già si era rifiutato anche di entrare in una presunta Santa Alleanza di cattolici, luterani, ortodossi, turchi e massoni. Tornò a parlarne Vincenzo Gioberti con un’ipotesi neoguelfa: confederazione italiana sotto la presidenza del papa; non teneva conto della presenza austriaca, ed era perciò politicamente debole. Gli si oppose Cesare Balbo con un’ipotesi neoghibellina, che sperava nel ritiro dell’Austria in cambio di espansione nei Balcani ancora turchi, e assegnava la presidenza al re di Sardegna. Anche nel fronte repubblicano il Cattaneo e il Pisacane s’interrogavano su unità e regioni. L’elezione di Pio IX sembrò far trionfare i neoguelfi, e la guerra del 1848 fu combattuta, inizialmente, in nome di una non precisata ma dichiarata “Lega”. Tuttavia solo la Sardegna dichiarò guerra all’Austria, mentre la Toscana e la stessa Chiesa mantennero un atteggiamento ambiguo; e Ferdinando II inviò la flotta a difendere Venezia e Guglielmo Pepe a combattere assieme a Carlo Alberto, ma senza un’alleanza definita e nemmeno una guerra dichiarata all’Austria: inizio di una continua incertezza politica che condurrà il Regno all’isolamento e alla fine del 1860. Gli avvenimenti interni delle Due Sicilie (guerra alla Sicilia ribelle, giornata del 15 maggio, riconquista della Sicilia l’anno dopo), la sconfitta di Carlo Alberto la prima e la seconda volta, l’intervento francese a Roma fecero cadere ogni ipotesi di confederazione, anzi gli Stati italiani parvero ridurre ogni rapporti politico e diplomatico tra loro. Nemmeno nacque un fronte conservatore (non dico “reazionario”, che è una parola nobile e tragica, e lontanissima dai paciosi Ferdinando e Leopoldo eccetera) tra Stati che dovevano capire essere minacciati dalla politica di Cavour e Napoleone III; né un fronte rivoluzionario, perché Cavour seppe imporsi non solo sugli inoffensivi ideologi democratici ma anche su Garibaldi, l’unico che poteva esercitare un’azione concreta e mettere assieme persino delle cospicue forze armate. Così l’Italia fu non unita ma unificata, e a colpi di annessioni al Regno di Sardegna e alle sue istituzioni e alla sua legislazione. Ma persino questo si poteva in qualche modo non dico evitare, almeno mitigare, se la Toscana ottenne di mantenere il suo Codice Leopoldino, e, dal punto di vista giuridico, fu una specie di regione federata fino al Codice Zanardelli del 1890.  Il Regno delle Due Sicilie rimase estraneo a tutti gli eventi europei e italiani dal 1854, mentre avrebbe dovuto schierarsi o pro o contro l’Austria eccetera; né provò un’intesa con Torino o qualsiasi cosa del genere. Non rispondetemi con aneddoti: quando tentò, Garibaldi era già quasi a Napoli, e il Regno non aveva più carte da giocare. Anche i liberali siciliani e napoletani avrebbero potuto trattare con Garibaldi e Cavour, e ottenere condizioni opportune per il cambio della moneta, la conservazione del nobilissimo sistema giudiziario napoletano, eccetera. Da bravi meridionalotti si sbracarono di fronte allo straniero, come faranno nel 1943 con gli Americani e farebbero anche con gli sbarcati da Marte. Chissà se una confederazione italiana avrebbe fatto meno danni dell’unificazione frettolosa e forzata? Sarebbe bello aprire una discussione, e mica solo sul passato, anche sull’avvenire.

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