A “Vuccateja” di san Giuseppe a Filogaso ed il “ focareddu” a Cirò
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Fra una norma giuridica e quella consuetudinaria o popolare, spesso ad avere la meglio è quest’ultima tanto radicata ne è la forza da non riuscire ad essere piegata da alcuna ragion di Stato. L’esempio è la festa di San Giuseppe, il 19 marzo, che da alcuni anni è stata abolita come festività nazionale perché lo Stato italiano, “doveva” uniformarsi al calendario internazionale. La stragrande maggioranza dei cittadini italiani, però, ha respinto questa norma, di fatto, nel senso che, “legalmente” l’ha aggirato, ricorrendo a tanti modi pur di festeggiarla, come gli studenti che non vanno proprio a scuola o tanti altri che preferiscono il giorno di ferie. Perché? Ma perché questa è una delle feste religiose forse più cementate nella nostra storia e nella quotidianità come particolare momento del ciclo dell’anno da sacralizzare. Il giorno di S. Giuseppe è, infatti, culto popolare affermatosi da secoli e nessuna norma potrà mai cancellarlo; un culto che non è solo italiano ma va dall’Europa alle Americhe fin dal IX sec. Pensate che da un’indagine di qualche anno fa, in Italia Giuseppe è il santo più venerato che occupa il primo posto al 78% e precede a distanza i SS. Pietro a Paolo (66%) e addirittura il Poverello d’Assisi (51%). Sposo di Maria e padre putativo di Gesù, è presentato nel Vangelo come uomo molto religioso, integerrimo e giusto, obbediente alla volontà divina e teneramente affezionato alla moglie e al figlio. Nella descrizione dei Vangeli apocrifi, Giuseppe è falegname che costruisce aratri e attrezzi agricoli; a 40 anni si sposa ed ha quattro figli e rimasto vedovo viene raggiunto dal bando del Sommo Sacerdote che chiama a Gerusalemme tutti i vedovi della Giudea per scegliere tra loro chi avere in affidamento, più che sposa, la quattordicenne Vergine Maria. La scelta, affidata al Signore, si manifestò quando tra le verghe consegnate, quella di Giuseppe apparve fiorita mentre una colomba uscita dalla stessa verga si posò sulla sua testa. Ecco perché nell’iconografia il nostro santo spesso ci viene presentato con un bastone gigliato. La venerazione ed il culto a S. Giuseppe iniziò in Oriente, in Egitto dove gli scritti apocrifi erano molto diffusi e la festa era il 25 dicembre assieme al ricordo dei Magi. In Occidente, invece, la devozione si deve ai Crociati, i quali a Nazareth eressero una basilica in suo onore e negli anni a venire addirittura la venerazione del Santo si propagò fino in Inghilterra già dal XII sec. Nella tradizione popolare italiana il culto di S. Giuseppe ha una diffusione larghissima e viene celebrato un po’ ovunque con falò come i “focareddi” di Cirò, fuochi d’artificio, banchetti ricchissimi offerti ai bisognosi, rappresentazioni sceniche e preparazione di cibi e dolci tipici, come le “frittelle” a Roma, le “torte fritte” a Parma, le “sfinci” in Sicilia e le “zeppole” in buona parte della Calabria. Per l’antropologo siciliano G. Pitrè, Giuseppe è il “santo tutelare dei poveri, degli orfani. I beni che la Provvidenza manda non vengono se non per la mercè di Lui, caritatevole, soccorrevole quant’altri mai”. Ecco perché attraverso il noto e diffuso “banchetto”, meglio conosciuto ‘mbitu (l’invito), viene rimarcata questa particolare prerogativa del Santo: la carità verso i poveri. “Lu mbitu”, consuetudine molto diffusa anche in Calabria, è l’invito fatto per voto da una famiglia del paese a 19 verginelle del luogo; nella tipologia classica l’invito veniva rivolto da famiglie agiate alla gente povera che, per il giorno di S. Giuseppe, appunto, sedevano insieme intorno alla tavola imbandita sulla quale troneggiava l’immancabile primo piatto “pasta e ciceri”, particolarmente tagliatelle e ceci. In altre aree del sud, tra i convitati si sceglievano due anziani, un uomo ed una donna, e un bambino: la Sacra Famiglia. Già la “famiglia” e, badate bene, il 19 marzo è anche la “festa del papà”. Si perché a Giuseppe Dio ha affidato una missione non facile: proteggere e difendere il Figlio di Dio e la Vergine; a Giuseppe il servizio, il lavoro, il sacrificio, le responsabilità, i rischi, gli affanni della sacra famiglia. È Giuseppe, che può aiutare i papà di oggi, a riscoprire la propria vocazione all’interno della famiglia; i papà che oggi sembrano travolti dai ritmi della quotidianità difficile e che trovano molta difficoltà a trovare momenti di silenzio per vivere la famiglia.
In origine era la festa di san Giuseppe, poi diventata la festa del papà e celebrata nella gran parte dei Paesi la terza domenica di giugno.
Il 19 marzo, il giorno in cui si festeggia in Italia, invece, è tutt’altro che casuale. Si tratta, infatti, di una data che rimanda al periodo pagano quando, alla vigilia dell’equinozio di primavera venivano celebrati i riti dionisiaci.
Per quanto riguarda, invece, la tradizione cattolica, il culto di san Giuseppe ha un’origine orientale. In Occidente giunse, invece, nell’alto medioevo e si diffuse a partire dal Trecento, quando alcuni ordini religiosi cominciarono a celebrarlo il 19 marzo, ovvero il giorno della morte.
Ad inserire la festività nel calendario romano fu, invece, nel 1479, papa Sisto IV, mentre nel 1870 Pio IX dichiarò san Giuseppe patrono della Chiesa universale.
Secondo la tradizione, san Giuseppe, oltre ad essere il patrono dei falegnami e degli artigiani è considerato, anche, il protettore dei poveri poiché nessuno gli offrì ospitalità in occasione della nascita di Gesù.
Proprio per questa ragione, nel giorno a lui dedicato, in molti centri dell’Italia meridionale, si usava invitare i poveri a pranzo. Ogni comunità aveva le sue tradizioni e le sue usanze. Alcune imbandivano la tavola ed invitavano i poveri, altri gli amici, altri ancora i parenti. Diverse erano poi le portate che potevano variare da sette a tredici.
Particolarmente note ed apprezzate, soprattutto nell’Italia centromeridionale, le famose zeppole di san Giuseppe, la cui origine, secondo taluni, andrebbe ricercata nel convento di san Gregorio Armeno a Napoli. Tuttavia, la ricetta si sarebbe diffusa a partire dal 1837 grazie al cuoco e letterato Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino che la inserì nel suo trattato di “Cucina teorico-pratica”.
In Calabria, ma non solo, il prodotto più usato in assoluto, sono i ceci, il cui impiego rimanderebbe alla circostanza che la festa di san Giuseppe coincide, grosso modo, con la fine dell’inverno. Per questo motivo, i legumi in genere ed i ceci in particolare venivano consumati, per poi essere rimpiazzati con i prodotti del nuovo raccolto.
Anche a Serra, nel giorno di san Giuseppe non c’era camino in cui non cuocesse una “pignata culli ciciari”. Chi ne aveva la possibilità, oltre alla pasta e ceci con il sugo dello stoccafisso, preparava anche le zeppole. Una volta “mandati” i piatti ai parenti ed ai vicini si predisponevano le porzioni da distribuire ai poveri. Il desco familiare, invece, veniva apparecchiato con tre posti riservati ad un bambino, un adulto ed una ragazza, che stavano a rappresentare quella Sacra famiglia, cui a Betlemme nessuno aveva offerto ospitalità