I Briganti nelle Serre. I nomi dei ricercati di Spadola, Brognaturo e Simbario

Dopo aver sbaragliato gli avversari ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, Napoleone, divenuto padrone incontrastato dell’Europa continentale, decise di liberarsi, anche, della monarchia borbonica invadendo il regno di Napoli. Le conquiste dell’imperatore d’Ajaccio, ogni volta, mettevano in moto un collaudato meccanismo di spartizione che vedeva protagonisti i componenti del suo numeroso clan familiare. Ai “napoletani”, per poco meno di due anni, toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Una volta incoronato re di Spagna, il fratello di Napoleone lasciò la corona di Napoli al cognato, Gioacchino Murat, marito della sorella Carolina, il cui regno si concluderà, il 2 maggio 1815, con la sconfitta a Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di ristabilire l’ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano restaurato la monarchia dopo aver scacciato i francesi. Nella guerra senza quartiere la Calabria fu in prima fila. Ad insidiare le truppe francesi i numerosi briganti che, favoriti dall’orografia e dalla fitta vegetazione, si cimentavano in continue azioni di guerriglia. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, i paesi situati sull’altopiano serrese diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. I boschi delle Serre divennero, quindi, rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Molti furono uccisi, altri arrestati, di altri ancora non si seppe più nulla. E’ difficile dire quanti e chi fossero, tuttavia, almeno parzialmente la lacuna può essere colmata grazie alla “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta risale, molto probabilmente, ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma dell’Intendente Colletta ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa impossibile, abbandonata nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. Ad aprire la “Nota” un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Per quanto riguarda Spadola, Brognatuto e Simbario, la “nota” riporta complessivamente 26 persone, tra le quali figurano anche tre donne. Questi i nomi, corredati dai soprannomi,  dei ricercati:

- (Simbario) Francesco Nardi Marta; Oliva Bertucci;Vincenzo Nardi Marta; Stefano Nardi Marta; Giuseppe Bertucci Occhiulia; Fortunato Mardi Mastro Gennaro; Vitantonio Nardi Mastrogennaro; Antonio di Nardo di Renzo; Francesco Polito Cici; Bruno Andreachio; Bruno Spina; Orsola Carello; Vito Valente; Diego La Caria; Elisabetta Timpani; Domenico Pavone; Francesco Polito Grota;

- (Spadola) Domenico Vavalà; Giuseppe Tassone di Domenico; Nicola Arena; Nicola Papa; Bruno Pirino e Francesco Primerano;

- (Brognaturo) Francesco, Nicola e Pietro Valente.

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Quei due francesi uccisi a Serra e seppelliti a Spadola

Nelle lunghe e dure vicende della storia, due soldati morti possono non rappresentare molto. Non rappresenterebbero tanto, neppure, se venissero inseriti nel contesto, più circoscritto, delle guerre napoleoniche o del “decennio francese”  nel Regno di Napoli. Possono rappresentare molto, invece, quando il teatro in cui hanno perso la vita non è un campo di battaglia, bensì un pacioso centro abitato, famoso più per le odi a Cristo che per gl’inni a Marte. Il luogo in questione è Serra San Bruno, dove, il 2 marzo 1811, trovarono la morte due soldati francesi.

Il fatto è riportato nella “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice. Il retroterra della storia rimanda al saccheggio compiuto dai briganti nel 1807. Per evitare che l’episodio si ripetesse, il comando francese aveva deciso di dislocare a Serra un congruo numero di gendarmi, posti agli ordini del “celebra (sic!) Voster”.

I nuovi arrivati, come spesso accadeva con la soldataglia francese, non dovevano essere per nulla teneri con la popolazione civile. Voster, infatti, viene definito “uomo crudele, intrattabile, fiero, e ladro non dissimile alla Brigata di suo comando”.

La guarnigione francese, quindi, doveva essere composta, per la gran parte, da ribaldi interessati a cogliere tutti gli agi connessi alla loro condizione di occupanti. Tanto più, che i soldati transalpini “non accorrevano” neppure “alle Spedizioni” contro i briganti, “ma restavano nel paese a commettere mille bricconerie”.

I gendarmi, tanto restii a prendere parte alle attività condotte dalla Guardia Civica, erano, invece, velocissimi a mettere le mani su qualunque cosa desiderassero. A testimoniarne la rapacità, un episodio accaduto nei primi mesi del 1811, in prossimità della “Gurna di li bufali”, dove, nel corso di una delle tante operazioni condotte in quel periodo, gli uomini della Guardia Civica, erano riusciti a sbaragliare un gruppo di briganti ed a sequestrare un consistente bottino; “le quali cose tutte portate a Serra furono prese dal sud.to Voster e sua Brigata, restando alla Civica il trapazzo di averle prese”.

In questo contesto, incalzati dall’azione repressiva condotta dai militi serresi, il 2 marzo, tre briganti, per il tramite di “Raffaele Timpano del Paparello”, un “villano di Spinetto”, chiesero alle autorità cittadine un salvacondotto. Per uno strano scherzo del destino, quel giorno, in assenza di Voster il comando della piazza era stato affidato ad un tenente, tale Gerard. Il povero Timpano, probabilmente, indeciso sul da farsi, si era rivolto al giudice di pace, Bruno Chimirri, il quale accompagnato dal comandante della Guardia Civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, andò a cercare il tenente Gerard. Lo trovò nel suo alloggio, in compagnia del maresciallo Ravier.

I due, evidentemente, abituati a tenere un contegno tutt’altro che marziale, avevano riportato la peggio da un lauto convivio con Bacco. Completamente incapaci di analizzare la situazione, consegnata una pistola ciascuno a Chimirri e Peronacci, nonostante i cauti suggerimenti dei serresi, si avviarono verso la casa in cui i tre briganti aspettavano il salvacondotto.

Alticci ed altezzosi com’erano, arrivati sul posto, cercarono di fare irruzione, ma non ebbero il tempo di varcare la soglia della porta d’ingresso che vennero freddati a colpi di schioppo. Nel frattempo, a dare man forte, erano arrivati, gli uomini della Guardia Civica che, al termine di un sanguinoso scontro a fuoco, costato la vita al milite Domenico Jorfida, riuscirono ad uccidere i tre briganti. Ritornato al comando ed appresa la notizia, Voster dovette andare su tutte le furie, al punto da ritenere Serra, indegna di accogliere le salme dei suoi soldati. Dispose, quindi, di “donare” quei due corpi straziati dalle pallottole brigantesche alla comunità spadolese, affinché li inumasse nella sua chiesa. Al lungo corteo che accompagnava le salme di Gerard e Ravier fino a Spadola, presero parte i militari francesi, i “cittadini” di Spadola, nonché quelli di Simbario e Brognaturo che avevano reclamato, invano, ”l’onore” di poter avere “fra loro i due Campioni”.

La vicenda assunse tratti, farseschi, quando, restaurati i Borbone, gli abitanti di Spadola trovarono imbarazzante custodire nella loro chiesa i corpi di due nemici della corona. Così, corsero ai ripari ed in maniera piuttosto spiccia, li “dissotterrarono, e li buttarono nel fiume”.

Memori dell’alterigia con la quale, al grido di “campioni” avevano accolto le salme al tempo di Voster, i “Maestri ferrari delle forge della via di S. Rocco” ogniqualvolta vedevano arrivare uno spadolese, un simbariano o un brognaturese, “lasciavano il martello, e correndoli dietro gridavano e ripetevano Campioni, Campioni: tantoché i spadolesi specialmente, nel venire a Serra: eran costretti entrare per la via dello Schiccio”.

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