Vibo V.: tutto pronto per la "Giornata delle piante spontanee commestibili"

"Il nostro cibo, la nostra salute e la nostra biodiversità”: con questo titolo le Nazioni unite hanno inteso richiamare l’attenzione del mondo, in occasione della celebrazione della Giornata mondiale dedicata al tema, sull’importanza che riveste la preservazione, la cura, la tutela della biodiversità, non solo in termini generali di approccio etico verso l’ambiente, ma ancor più in particolare con riferimento all’impatto diretto sulla sicurezza alimentare e sulla salute dell’uomo.

L’attuale sistema alimentare è sempre più dannoso per l’ambiente e miliardi di persone non hanno accesso ad un’alimentazione corretta. I modi in cui coltiviamo, trasformiamo, trasportiamo, consumiamo il cibo sono le principali cause di perdita della biodiversità, a livello mondiale, incidendo anche in modo considerevole sui mutamenti climatici. Attuare il cambiamento trasformativo non solo è possibile, ma è doveroso da parte di tutti e ciascuno di noi in quanto parte integrante della soluzione. Il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, spiega, molto bene, che “le scelte di stile di vita sostenibili sono la chiave. E tutti devono poter esser in grado di compiere questa scelta. Ciò significa migliori politiche che promuovano il governo, le imprese e la responsabilità individuale. Dobbiamo tutti far parte di un movimento per il cambiamento. Quest’anno, i governi si incontreranno a Kunming, in Cina, per concordare un nuovo ambizioso quadro globale per la biodiversità. Sosteniamo la loro missione difendendo la natura”.

L’Italia gioca sicuramente un ruolo di primo piano nell’importante sfida di preservare l’ingente patrimonio di varietà e variabilità degli organismi viventi e degli ecosistemi in cui essi vivono poiché essa rappresenta uno dei più importanti serbatoi di biodiversità vegetale e animale del continente europeo. La posizione geografica al centro del Mediterraneo, la presenza contemporanea di notevoli dislivelli altitudinali (dal livello del mare a montagne che superano i 4.000 metri) e di differenze latitudinali (dalle rigide temperature alpine al caldo arido delle aree più meridionali) hanno creato, infatti, una notevole quantità di ambienti e contesti climatici differenti.

Il nostro, inoltre, è il paese europeo che in assoluto ospita il più alto numero di specie, ovvero circa la metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali attualmente presenti in Europa.

In tale contesto, la Calabria si impone in modo straordinario, caratterizzandosi per una ricchezza in termini di presenza di specie animali e vegetali che, in particolare, in merito alle piante officinali, le consente di vantare il primato nazionale della maggiore superficie investita da tali colture.

Salvare la biodiversità significa salvare un patrimonio genetico, economico, sociale e culturale di straordinario valore, fatto di eredità contadine e artigiane non sempre scritte, ma ricche e complesse.

Le varietà locali sono infatti, oltre che il prodotto di un adattamento avvenuto per effetto della pressione ambientale, anche un risultato culturale, derivante dal lungo ed incessante lavoro di selezione e miglioramento fatto nel tempo dagli agricoltori, per preservare alcune caratteristiche rispetto ad altre con tecniche di coltivazione spesso condivise e socializzate.

Tutto ciò è molto più che risorsa genetica; è patrimonio, è sapere tramandato, un tempo, di generazione in generazione ma che oggi tende ad essere dimenticato anche a causa di una serie di dinamiche socio-economiche e culturali, in generale, che hanno portato all’abbandono dei più sani stili di vita e, di conseguenza, alla perdita delle pratiche tradizionali. 

Di contro, vi è chi si adopera con entusiasmo e passione affinché questi tesori non vadano perduti cogliendo, a pieno titolo, la sfida lanciata a livello mondiale dalle Nazioni Unite, di garantire la straordinaria longevità del rapporto Uomo-Natura che, in particolare nel Mediterraneo, ha conosciuto una simbiosi mirabile.

Giacinto De Rosario, cuoco alimurgico, è un protagonista diretto di questa bella storia la cui narrazione è iniziata in Calabria, attraverso l’ambizioso progetto di far conoscere le erbe spontanee della nostra regione, la loro storia, la loro specificità, il loro impiego in cucina. L’appassionato impegno assunto dalla prima “Associazione alimurgica d’Italia”, fondata a Fiumefreddo Bruzio, è stato colto con altrettanto entusiasmo dal Club per l’Unesco di Vibo Valentia, guidato da Maria Loscrì e tradotto in una concreta occasione di conoscenza e divulgazione attraverso la manifestazione organizzata per sabato 19 giugno alla Fattoria La Goccia di Vibo Valentia. L’appuntamento, previsto in una delle più attive e solide realtà associazionistiche del Vibonese, mirerà a dare il via ad un progetto strutturato e sinergico di buone pratiche culturali che, partendo dalle migliori tradizioni della nostra regione, offrirà un percorso di crescita socio-economica rivolto, soprattutto, alle nuove generazioni.

 

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Serra e l’antico sapere di “andar per campi”

La primavera, bella per poeti e pittori, è stata tante volte amara, quando non addirittura ostile, per la gente comune. Mentre i primi, spesso, l’hanno tratteggiata con opere radiose in cui la natura riprende vita, i secondi l’hanno vissuta con ambasce poiché, il più delle volte, l’inizio della bella stagione coincideva con l’esaurimento delle scorte alimentari accumulate per superare l’inverno.

In attesa dei  nuovi raccolti, uomini e donne iniziavano, quindi, ad “andar per campi” in cerca di frutti ed erbe con cui combattere i morsi della fame. Quanto l’uso delle piante edibili spontanee fosse diffuso un tempo, lo testimonia uno scritto di Giacomo di Castelvetro che nel “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano”, apparso nel 1614, scrive: “gl’Italiani mangino più erbaggi e frutti che carne”.

Ancor più significativo il trattato “De Alimenti urgentia” con il quale, nel 1767, il naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti focalizza l’attenzione sulla “Alimurgia o sia modo di rendere men gravi le carestie”, ovvero la possibilità di utilizzare le piante spontanee “che tolgon la fame”. Nel trattato, scritto dopo la terribile carestia del 1764 che colpì buona parte dell’Italia - dal Granducato di Toscana al Regno di Napoli - Targioni Tozzetti chiama “alimurgia” la disciplina che si “occupa di ricercare quanto può essere utile in caso di necessità alimentare”.

Il termine – complice la scarsità di cibo provocata dalla Grande guerra e dall’epidemia di spagnola - sarà ripreso nel 1918 dal biologo piemontese Oreste Mattirolo, il quale chiamerà “Phytoalimurgia pedemontana”, il suo censimento delle specie alimentari della flora spontanea. Arricchita dal prefisso “fito” (dal greco phytón, ovvero "pianta"), l’alimurgia entrerà nel linguaggio scientifico con il lemma fitoalimurgia. L’espressione, usata ai nostri giorni, indica la disciplina che riconosce l'utilità di cibarsi di piante selvatiche – dette per l’appunto alimurgiche - soprattutto in tempi di carestie o semplicemente per scopi salutistici.

Gli ignari seguaci della fitoalimurgia non sono mai mancati a Serra San Bruno e nel suo circondario dove, con l’arrivo della bella stagione, le brave massaie di un tempo trasformavano in regine della cucina piante dai nomi e dalle forme più disparate. Tra le prime ad apparire sulla tavola c’erano sicuramente la borraggine (gurrajina) e le ortiche (ardichi), destinate ad essere consumate con pasta o riso. Era poi la volta della vitalba (ligunhii), impiegata per rendere più appetitosa la frittata, o degli asparagi selvatici (sparaci) da gustare anch’essi con la pasta o con le uova. Meno comuni, invece, i germogli del luppolo (luppura). Immancabili, poi, il ravanello selvatico (vruoccula di razzi) e il cavolo rapiciolla (rapisti) di cui, in entrambi i casi, si consumavano sia i broccoletti che le foglie (magari con i fagioli). Accanto ai fagioli finivano, spesso, anche il finocchietto selvatico (finucchiu) e il sedano d’acqua (schiafuni). Infine, tra i protagonisti assoluti delle tavoli serresi, c’erano la costolina o costole d’asino (viedhiruni) e il fiore del sambuco (pipi di maju), destinato alla tradizionale “pitta chjina”.

Ovviamente, l’attenzione di chi era uso ad “andar per campi” non si limitava alle sole piante edibili. Tra la primavera e l’estate, infatti, molti non disdegnavano la raccolta di aromatiche, come: timo, anice - entrambi facilmente reperibile nei boschi - e origano. Non mancava, infine, l’attenzione per piante officinali, quali la malva (marva) o il tiglio (tiggjiu). Un’attenzione nata da conoscenze antiche capaci di trasformare i saperi in sapori. Sapori e saperi che meriterebbero di essere riscoperti e valorizzati, magari con un festival tematico dedicato alle piante spontanee e al loro uso nella cucina tradizionale.

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