Serra e l’antico sapere di “andar per campi”

La primavera, bella per poeti e pittori, è stata tante volte amara, quando non addirittura ostile, per la gente comune. Mentre i primi, spesso, l’hanno tratteggiata con opere radiose in cui la natura riprende vita, i secondi l’hanno vissuta con ambasce poiché, il più delle volte, l’inizio della bella stagione coincideva con l’esaurimento delle scorte alimentari accumulate per superare l’inverno.

In attesa dei  nuovi raccolti, uomini e donne iniziavano, quindi, ad “andar per campi” in cerca di frutti ed erbe con cui combattere i morsi della fame. Quanto l’uso delle piante edibili spontanee fosse diffuso un tempo, lo testimonia uno scritto di Giacomo di Castelvetro che nel “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano”, apparso nel 1614, scrive: “gl’Italiani mangino più erbaggi e frutti che carne”.

Ancor più significativo il trattato “De Alimenti urgentia” con il quale, nel 1767, il naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti focalizza l’attenzione sulla “Alimurgia o sia modo di rendere men gravi le carestie”, ovvero la possibilità di utilizzare le piante spontanee “che tolgon la fame”. Nel trattato, scritto dopo la terribile carestia del 1764 che colpì buona parte dell’Italia - dal Granducato di Toscana al Regno di Napoli - Targioni Tozzetti chiama “alimurgia” la disciplina che si “occupa di ricercare quanto può essere utile in caso di necessità alimentare”.

Il termine – complice la scarsità di cibo provocata dalla Grande guerra e dall’epidemia di spagnola - sarà ripreso nel 1918 dal biologo piemontese Oreste Mattirolo, il quale chiamerà “Phytoalimurgia pedemontana”, il suo censimento delle specie alimentari della flora spontanea. Arricchita dal prefisso “fito” (dal greco phytón, ovvero "pianta"), l’alimurgia entrerà nel linguaggio scientifico con il lemma fitoalimurgia. L’espressione, usata ai nostri giorni, indica la disciplina che riconosce l'utilità di cibarsi di piante selvatiche – dette per l’appunto alimurgiche - soprattutto in tempi di carestie o semplicemente per scopi salutistici.

Gli ignari seguaci della fitoalimurgia non sono mai mancati a Serra San Bruno e nel suo circondario dove, con l’arrivo della bella stagione, le brave massaie di un tempo trasformavano in regine della cucina piante dai nomi e dalle forme più disparate. Tra le prime ad apparire sulla tavola c’erano sicuramente la borraggine (gurrajina) e le ortiche (ardichi), destinate ad essere consumate con pasta o riso. Era poi la volta della vitalba (ligunhii), impiegata per rendere più appetitosa la frittata, o degli asparagi selvatici (sparaci) da gustare anch’essi con la pasta o con le uova. Meno comuni, invece, i germogli del luppolo (luppura). Immancabili, poi, il ravanello selvatico (vruoccula di razzi) e il cavolo rapiciolla (rapisti) di cui, in entrambi i casi, si consumavano sia i broccoletti che le foglie (magari con i fagioli). Accanto ai fagioli finivano, spesso, anche il finocchietto selvatico (finucchiu) e il sedano d’acqua (schiafuni). Infine, tra i protagonisti assoluti delle tavoli serresi, c’erano la costolina o costole d’asino (viedhiruni) e il fiore del sambuco (pipi di maju), destinato alla tradizionale “pitta chjina”.

Ovviamente, l’attenzione di chi era uso ad “andar per campi” non si limitava alle sole piante edibili. Tra la primavera e l’estate, infatti, molti non disdegnavano la raccolta di aromatiche, come: timo, anice - entrambi facilmente reperibile nei boschi - e origano. Non mancava, infine, l’attenzione per piante officinali, quali la malva (marva) o il tiglio (tiggjiu). Un’attenzione nata da conoscenze antiche capaci di trasformare i saperi in sapori. Sapori e saperi che meriterebbero di essere riscoperti e valorizzati, magari con un festival tematico dedicato alle piante spontanee e al loro uso nella cucina tradizionale.

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