Attenzione
  • JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 983

Elezioni alle porte: riflessioni sull'ondata riformista del Partito Democratico

Secondo il politologo e costituzionalista Stefano Ceccanti, le elezioni del prossimo 4 marzo avranno la stessa portata  storica delle elezioni politiche del 1948 (le prime della nostra storia repubblicana). Se nel ‘48 la scelta fu tra le forze filo-occidentali e le forze filo-sovietiche, nel 2018 la scelta sarà tra le forze progressiste filo-europee e le forze populiste e conservatrici anti-europee.

Il Partito Democratico ,ad oggi,  rappresenta la maggior forza progressista presente in Italia, forza che cinque anni or sono,  con la non-vittoria di “Italia Bene Comune” e la conseguenziale assenza di una chiara maggioranza in Parlamento, ha preso su di sé la responsabilità di governare il Paese.

Chi scrive non sempre è stato morbido nei confronti di alcune scelte dei governi a guida PD. Alcune cose sono state fatte bene, altre potevano essere fatte meglio, altre ancora potevano essere fatte diversamente. Non si può, però, non constatare  il fatto che  laddove prima vi era la recessione ora vi è la crescita, laddove vi era la sfiducia delle imprese e delle famiglie ora vi è la fiducia e dove prima vi era la cieca austerità ora vi è la flessibilità. A dirlo non è il Segretario del Circolo PD di Vibo Valentia, ma l’ISTAT. Certo, si poteva fare di più! La crescita è ancora poco generalizzata e rischia di essere debole se non si continua sulla strada delle riforme.

La legislatura ,conclusasi lo scorso 28 dicembre, ha visto inoltre un notevole avanzamento per quanto riguarda i diritti civili. Persone che fino a cinque anni fa erano per lo Stato inesistenti, oggi esistono. Penso alle tante persone omosessuali che grazie alle unioni civili possono amarsi liberamente anche davanti alla legge; penso alle tante persone fiaccate da malattie incurabili che grazie al bio-testamento potranno lasciare questo mondo con dignità; penso alle tante persone sfruttate nei campi di pomodori o agrumi che grazie alla legge sul caporalato potranno denunciare i propri “padroni”; penso ai tanti figli “naturali”, “legittimi” e “adottivi” che grazie alla riforma del diritto di famiglia saranno semplicemente “figli”; penso infine alle tante donne vittime della violenza maschilista che grazie alla legge sul femminicidio potranno denunciare i propri aguzzini.

Non posso inoltre fare a meno di citare l’approvazione del nuovo codice anti-mafia, l’introduzione del Reddito d’inclusione (prima misura universale contro la povertà assoluta), le tante assunzione nella Pubblica Amministrazione (Professori, Ufficiali giudiziari etc.), le misure a favore dal mezzogiorno (decontribuzioni, fondi agevolati per i nuovi giovani imprenditori, istituzione delle ZES etc.). A tal proposito, credo  sia anche doveroso ricordare che la prossima istituzione delle ZES, prevista appunto nel decreto mezzogiorno, riguarderà altresì l’area portuale di Vibo Marina, il ché accompagnato dagli investimenti regionali per il suo potenziamento offrirà notevoli occasioni di sviluppo per il nostro territorio. Come sopracitato, temo che tutto ciò non ci soddisfi del tutto. La disoccupazione, anche se diminuita notevolmente rispetto al 2013, rimane ancora una piaga sociale assai grave, così come i casi occupazione precaria e malpagata. Per far fronte a ciò abbiamo deciso di porci tre priorità: lavoro, lavoro e lavoro. Per creare ancora nuovi posti di lavoro è necessario abbassare le tasse a chi crea posti di lavoro stabili, alle famiglie, al ceto medio e ai lavoratori. Il tutto dovrà inoltre essere accompagnato dall' introduzione di un salario minimo al di sotto del quale nessuno potrà essere pagato.

Ovviamente siamo consapevoli che l’arte del governo non è semplice né priva di ostacoli. Noi del Partito Democratico lo sappiamo perfettamente e, a differenza delle altre forze politiche, manteniamo ben saldi i piedi per terra evitando proposte demagogiche ed economicamente non fattibili. Il PD è, ad oggi , l’ultimo partito rimasto in Italia che vive la militanza quotidianamente e che quotidianamente vive il territorio.

Paradossale è , a tal proposito,  la vicenda della Deputata vibonese a 5 Stelle On. Dalila Nesci, la quale ,dopo aver dispensato mediaticamente lezioni di giustizia (giustizialista con gli altri e garantista con i propri) di politica e di  democrazia a destra e manca (a tal proposito consiglio la visione del video di auto-candidatura del 31 dicembre dove pubblicamente “minaccia” e “diffida” i militanti pentastellati che non la pensano come lei, ci chiediamo infatti se sia questa la concezione di democratica discussione che la Onorevole esercita nel proprio movimento politico) scopre dopo cinque anni di appartenere ad un territorio, intestandosi battaglie non proprie (vedi la recentissima vicenda LSU-LPU) e criticando continuamente senza proporre concretamente nulla realmente fattibile. La differenza  tra noi e gli altri sta proprio in questo: noi proviamo a cambiare le cose in maniera pragmatica, gli altri invece promettono la luna.

Come tutti gli uomini anche noi non siamo esenti da errori, tanto di valutazione quanto di progettualità, ma siamo pronti a riconoscerli in nome della nostra passione per la politica e per il bene comune. Il mio non vuole essere solo un invito a votare il Partito Democratico, ma piuttosto un invito a votare in maniera consapevole, valutando attentamente i programmi delle varie forze politiche che concorreranno alle elezioni e le idee di queste sono portatrici. La democrazia è bella se il cittadino è protagonista attivo della vita politica del Paese. Per fare questo è necessario un confronto costruttivo con tutti gli attori in campo. Il Partito Democratico è uno di questi e nelle prossime settimane, a Vibo come nel resto d’Italia, proverà a spiegare a tutti i cittadini il perché riporre in lui la propria fiducia: non in nome di promesse inattuabili, ma in nome di un programma di governo che possa contribuire al benessere comune dell’Italia e degli italiani.

* Segretario Pd Vibo Valentia 

  • Published in Diorama

Fabrizia. Considerazioni sui risultati del referendum: fra delusione, proteste e aspettative

Assorbita la delusione per le riforme mancate, mi sento di fare una riflessione sul significato vero di questo particolare ed eccezionale voto. È sotto gli occhi di tutti che si è trattato di una protesta. Eclatante protesta contro il “Governo” e, in primis, contro “chi” Governa. Pare altrettanto accertato il fatto che la protesta sia stata caldeggiata soprattutto dagli elettori più giovani, e ciò a buona ragione.

La gioventù degli ultimi decenni è stata fortemente penalizzata dall’esaurimento delle risorse e, di conseguenza, bastonata da una dilagante disoccupazione.

È assolutamente comprensibile la protesta, soprattutto contro i governanti (siano di destra o di sinistra poco importa, perché importano soltanto le conseguenze della loro inefficienza), ma la problematica questione dei poteri organizzativi dello Stato resta, e non è conveniente trattarla con pericolosa demagogia.

Lo Stato e i Governi non sono cattivi in sé, ma lo sono per come sono gestiti.

Allora, è vero che abbiamo il diritto e il dovere di cambiare i governanti per la scarsa produttività o non coerenza dell’azione politica o, peggio, per la disonestà, ma è altrettanto vero che sta a noi, quando ce ne viene data l’occasione, contribuire alla realizzazione degli strumenti necessari ad un buon governo.

I giovani, con somma ragione, hanno deciso di bocciare i riformatori insieme alle riforme, per la cattiva impressione che hanno dato nell’esercitare il potere con troppa lentezza rispetto alle promesse ed ai programmi sbandierati come di facile soluzione.

Ci si augura che la lezione serva per coloro i quali saranno chiamati a prendere il testimone di questo momento politico così difficile, drammatico soprattutto con riferimento alla devastatrice disattenzione nei confronti dei giovani ed alla dominante corruzione che depaupera senza pietà le scarse poche risorse ancora disponibili, non inghiottite dal sistema globalizzante delle multinazionali. Nell’augurata ipotesi che ci venga nuovamente concessa l’occasione di contribuire alle riforme, non tiriamoci indietro. Piangere sul latte versato non ha senso, ma se avessimo approvato questa riforma oggi avremmo uno strumento in più per pretendere: il Referendum propositivo inserito con la legge di riforma costituzionale appena bocciata.

Mi permetto, in conclusione, una breve riflessione paesana. A Fabrizia il risultato è stato fortemente controcorrente: il SI ha raggiunto la straordinaria cifra del 64.06%, mentre il NO si è fermato al 35,94%.

Vi è tuttavia la necessità di mettere l’accento sulla tipologia di votanti per comprendere il motivo della forte superiorità del dato riformista rispetto a quello conservatore.

Fabrizia è oramai un paese di quasi soli anziani, poiché la quasi totalità dei giovani, assolti gli impegni scolastici, partono per trovare lavoro. Pare che si stia attuando una nuova forte emigrazione giovanile soprattutto verso la Germania.

Allora, chi ha votato a Fabrizia dato che la gioventù è scarsa?

Soprattutto veterani, persone che hanno vissuto abbastanza per assistere all’auge e il successivo declino dell’economia e dell’industria italiana.

Persone che hanno capito che così non si può andare avanti e che occorre modificare le regole togliendo comodi alibi ai governanti, che si trincerano dietro i grandi numeri per far sì che nulla cambi.

Persone che, alla richiesta di un consenso per l’approvazione della riforma costituzionale, rispondevano tranquillamente e pacificamente: “Si, certamente, perché speriamo che cambi qualcosa per i giovani”.

  • Published in Diorama

La brutta fine della costituzione "più bella del mondo"

Che la vigente fosse “la costituzione più bella del mondo” lo ha detto… Aristotele, quando comparò i diversi assetti delle città greche, ed egli stesso studiò quella di Atene; o il Machiavelli, il Vico, o Montesquieu? Ma no, l’ha detto Roberto Benigni, poi lo ha ripetuto Laura Boldrini; e né questa né quello risultano essere dei filosofi della politica, perciò la loro affermazione mi fece l’effetto che fanno le battute. Anche perché questa costituzione più bella del mondo non arriverà al compleanno dell’1 gennaio 2018, anniversario di quanto entrò in vigore; anzi, spero, nemmeno al 2017. In questi decenni, del resto, di costituzioni ce n’erano due, e la costituzione davvero vigente era quella “materiale”, cioè la partitocrazia, che lottizzava governi e posti; e i governi nazionali e le amministrazioni locali cadevano e risalivano e si rimpastavano a ritmi industriali: una cinquantina di governi! Dopo il 1990, si provò con una surrettizia e ambigua elezione diretta del “premier”, che ebbe grama vita: i governi Berlusconi, frutto di elezione, o caddero o vennero fatti arcanamente cadere; Prodi lo buttarono giù i suoi amici e compagni; Dini, Monti e roba del genere non si sa da dove siano spuntanti; e così lo stesso Renzi. Insomma, già così della costituzione del 1948 era rimasto ben poco. Ora, niente. Ma l’errore non fu cambiarla di fatto, e non è oggi cambiarla di diritto; fu scriverla in modo che ci fossero due assemblee legislative praticamente uguali, con la sola differenza che i senatori dovevano avere 40 anni e i loro elettori 25: un pallido ricordo scolastico del “senatus” come riunione dei “senes”, vecchi. Era un sbaglio, e fu una delle cause dell’instabilità italiana di questi decenni. Un’assemblea basta e avanza; e non che io sia contento di come funzioni la Camera; ma un passo per volta, e intanto mandiamo a casa il Senato. Un corollario, anche se non è l’essenziale, sono 350 bocche di luccio in meno da sfamare: e che bocche!

  • Published in Diorama

Il senato? Torniamo allo Statuto

Le istituzioni inglesi che, aristocratiche e alto borghesi, i libri spacciano per democratiche, e, medioevali, passano per rivoluzionarie, funzionarono per secoli così: il potere del re limitato da una Camera dei Comuni, con rappresentanti delle città, e una Camera dei Lord con i feudatari. Tutti i liberali europei del XIX secolo tentarono di imitarle, venendo però inficiati da una mania francese: il cartismo, cioè fissare per iscritto quello che saggiamente in Inghilterra, poi Gran Bretagna, è solo modificabile consuetudine. Il risultato fu che le costituzioni liberali e, nel XX secolo, democratiche subirono una stridente dicotomia tra norme scritte e situazioni di fatto. Lo Statuto albertino (per inciso, era simile anche la costituzione di Ferdinando II) del 1848 prevedeva una Camera elettiva (censitaria, ma elettiva), e un Senato di nomina regia, la cui funzione era di immischiarsi poco nelle piccole questioni della politica, e garantire saggezza e moderazione attraverso l’autorevolezza dei suoi membri. Presto la Camera iniziò a prevaricare, condizionando e di fatto ponendo i governi, che invece dovevano essere espressione del re. Lo lamentava nel 1897 Sidney Sonnino con il celebre articolo “Torniamo allo Statuto”. La costituzione del 1948 fece del Senato un sostanziale doppione della Camera, con qualche remota reminiscenza del passato come l’età e i senatori a vita; ma il Senato fu teatro delle stesse manovre più o meno pulite dell’altro ramo. L’effetto fu un rimpallo delle leggi tra emendamenti e modifiche. Che ora il Senato così com’è sparisca, dichiaro di essere d’accordissimo. Che alcuni vecchi costituzionalisti si schierino in difesa del 1948, rafforza con entusiasmo la mia convinzione. Fosse per me, farei un Senato albertino, con figure davvero autorevoli e con una funzione di rappresentanza dei corpi intermedi e delle realtà comunitarie e sociali, comprese le categorie produttive e le corporazioni; e con rare e fondamentali funzioni e riunioni. Intanto sparisce questo che c’è, e mi sta bene. 

 

 

  • Published in Diorama

ESCLUSIVO / Stefania Craxi si apre a “Il Redattore”

ROMA – Sarà a Serra San Bruno il prossimo 15 febbraio per presentare il libro “Io parlo, e continuerò a parlare” nel quale vengono raccolti quegli scritti dall’esilio del padre Bettino che lasciano trasparire il bisogno di una svolta presidenziale che i tempi, le trasformazioni della società e la realtà politica avrebbero poi imposto all’attenzione dell’agenda politica. Intanto, Stefania Craxi si apre in esclusiva al nostro giornale facendo emergere quel carattere ereditato da chi ha fatto del decisionismo uno stile di governo, ripreso, anche se in maniera in parte diversa, da Silvio Berlusconi. Gli argomenti che affronta con naturale determinazione non possono che essere principalmente quelli della recente elezione del Capo dello Stato e delle riforme. “L’auspicio del nuovo presidente della Repubblica ad avere giocatori corretti – esordisce la Craxi - cozza paradossalmente con il metodo adottato da Renzi nella partita per il Quirinale. Benché il contrasto sia assai stridente non può però essere considerato fortuito. La speranza è che l’intendimento di Mattarella sia, di fatto, la presa d’atto da parte del nuovo arbitro costituzionale della necessità inderogabile che nella partita di governo ed in quella delle riforme, vi sia il rispetto delle norme e delle procedure parlamentari, del ruolo delle opposizioni e delle minoranze e del rispetto delle prerogative di ciascun parlamentare. L’intera vicenda del Colle dovrebbe però indurre ad una riflessione più approfondita e più organica sulla sostanza e sulla natura del processo di revisione costituzionale in atto”. Da questa premessa nasce un ragionamento profondo centrato sull’assunto per cui “lo squilibrio tra i poteri, la difficile governabilità ed un confuso e sterile assemblearismo parlamentare hanno prodotto nel corso dell’ultimo ventennio una pericolosa disaffezione dei cittadini”. Ed è per questo che “occorre intervenire presto su questi punti ed in questa direzione”. In tal senso, ad avviso della Craxi,  “il disegno di revisione costituzionale, la famigerata riforma Boschi, non dà alcuna risposta di sistema ad una crisi profonda, non solo della politica e delle Istituzioni, ma del nostro stesso tessuto democratico. Infatti – spiega con piglio critico - la democrazia si nutre e vive del consenso dei cittadini e questo non si recupererà senza un rinnovamento radicale delle istituzioni, della politica e dei partiti che ne sono i protagonisti. Per farlo, è necessario rivedere il dettato costituzionale e farvi entrare quel soffio di libertà e di modernità vitali per dare al Paese una ‘democrazia governante’, come sostenuto già sul finire degli anni settanta da Bettino Craxi. Ciò non significa recidere le radici della nostra Repubblica; è, al contrario, la necessità di rinnovare l’impegno ed i valori di fondo che sono alla base della nostra Costituzione: partecipazione, libertà, diritti”. Riassumendo: “Tutta l’esperienza viva, la storia stessa dell’ultimo ventennio, dimostra l’esigenza di un sistema presidenziale”. Nessun intervento di pura parvenza fa al caso dell’Italia poiché “le riformicchie che non hanno un largo respiro, non solo non rispondono alle esigenze della nostra democrazia e del Paese, ma rischiano di essere dannose, creare ulteriori vulnus democratici, nuove crisi e crescenti tensioni. Non servono e non possono bastare meri maquillages, serve una ‘grande riforma’ che per i veri riformisti ha sempre significato innanzitutto semi-presidenzialismo”. Per quest’ultimo non s’intende “solo un valido ed efficiente sistema di governo”, ma soprattutto “una terapia d’urto utile ad affrontare e risolvere i nostri antichi mali ed i nuovi vizi, in grado di rigenerare un tessuto democratico profondamente minato, rivitalizzando e restituendo ruolo e funzione ai partiti”. D’altra parte, “non è un caso che la forma di governo presidenziale stia ormai sostituendo quella parlamentare ed è oggi di gran lunga maggioritaria nel globo”. L’analisi è fredda e riconosce le circostanze per cui “in Italia,  attardandoci nella difesa di un parlamentarismo senza partiti, svilito da meccanismi elettorali capestro, da prassi e consuetudini materiali che hanno indebolito e reso subalterno il ruolo dell’assemblea legislativa, abbiamo avuto nel corso di questi anni un presidenzialismo di risulta a costituzione invariata, senza una distinzione di ruoli e funzioni ed i necessari e dovuti contrappesi”. Il suggerimento, invece, è passionale e consiste nell’adattare “la costituzione formale a quella materiale, costituzionalizzando e bilanciando ciò che nella realtà già esiste”. Rilevato che si tratta di “una contraddizione che una personalità dalla forte tensione democratica come Mattarella non può non porsi e non porre all’attenzione del Paese”, la Craxi sostiene che sia proprio questa “la questione tra le questioni con la quale Forza Italia dovrebbe incalzare, in un duello tutto in positivo, la maggioranza di governo ed il suo presidente, i cui atteggiamenti gattopardeschi sono fin troppo evidenti. Bettino Craxi – aggiunge con orgoglio - pose la questione presidenziale con forza e convinzione”.

Il volume, che sarà illustrato a palazzo Chimirri fra meno di 10 giorni, certifica pertanto “la lungimiranza, la capacità di analisi e di visione” di Bettino Craxi che è “rimasta intatta fino alla fine”, ma anche “i ritardi del nostro Paese”. “Rinnovarsi o perire” era il motto socialista che più di ogni altro egli amava. “Fu per lui – come testimonia la figlia - una missione, una condizione d’inquietudine cui dedicò, con impegno e sacrificio, la sua vita” per “il bene ed il progresso dell’amata Italia”.

  • Published in Politica
Subscribe to this RSS feed