'Ndrangheta, i dettagli della cattura del latitante scovato in un resort di Parghelia

Nel primo pomeriggio di oggi personale della Squadra Mobile di Reggio Calabria, coadiuvato da agenti del Commissariato di di Palmi e della Squadra Mobile di Vibo Valentia, con il supporto di un elicottero del V Reparto Volo della Polizia di Stato, nell’ambito di una complessa attività di indagine della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria finalizzata alla ricerca ed alla cattura dei latitanti della fascia tirrenica, ha proceduto alla cattura del pericoloso latitante, esponente di spicco del sodalizio di 'ndrangheta dei Santaiti di Seminara, Antonio Cilona, 35 anni. A seguito dell’attività investigativa svolta sotto la direzione della Procura Antimafia reggina, lo stesso è stato individuato in un resort della "Costa degli Dei", nella zona costiera a sud della Provincia di Vibo Valentia, all’interno di un bungalow dove si nascondeva. Cilona, condannato per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso ed omicidio, era disarmato ed al momento della cattura non ha opposto resistenza agli agenti che avevano opportunamente cinturato l’obiettivo, rendendo impossibile ogni via di fuga al ricercato. La condanna all’ergastolo a carico di Cilona è stata frutto di un'attività di indagine compiuta dalla Polizia di Stato reggina e coordinata dalla locale Direzione Distrettuale Antimafia che ha ricostruito l’omicidio di Carmelo Ditto, quest’ultimo cognato di Antonino Gallico dell’omonimo clan palmese, la cui responsabilità ricadeva sul clan Santaiti. L’indagine ha consentito di appurare che gli esecutori materiali del grave fatto delittuoso furono Carmine Demetrio Santaiti e, per l’appunto, Antonio Cilona.  A seguito della condanna all’ergastolo comminatagli dalla Corte d’Assise di Appello di Reggio Calabria il 27 luglio scorso Antonio Cilona si è reso latitante. Il ruolo di rilievo ricoperto da Antonio Cilona, in seno alla consorteria mafiosa dei Santaiti di Seminara, era emerso proprio dalla vicenda relativa all’omicidio di Carmelo Ditto, poiché Carmine Demetrio Santaiti, pur avendo la disponibilità di altri nipoti maschi diretti e di numerosi affiliati, aveva scelto proprio Antonio Cilona Antonio come suo complice per compiere tale delitto.  

'Ndrangheta, latitante condannato all'ergastolo catturato in un villaggio turistico di Parghelia

Agenti della Squadra Mobile hanno scovato e catturato un latitante al quale in Appello è stata inflitta la condanna del carcere a vita perché giudicato responsabile di associazione mafiosa e omicidio. Antonio Cilona, ritenuto uno dei personaggi al vertice della cosca Santaiti, operativa a Seminara, in provincia d Reggio Calabria, si trovava in una struttura turistica di Parghelia. Quando ha capito che la sua fuga era terminata non ha neanche tentato di opporsi ai poliziotti della Questura della città dello Stretto. La sentenza dell'ergastolo gli era stata comminata nel contesto del processo scaturito dall'inchiesta denominata "Cosa mia", che fece emergere gli interessi economico-criminali della 'ndrangheta nelle opere di rifacimento dell'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria ed aprì uno squarcio su diversi delitti commessi nell'ambito di una guerra combattuta dai clan di Palmi e Seminara.  

'Ndrangheta, operazione "Kyterion 2": arrestati 16 fra presunti boss ed affiliati

Sono in tutto sedici gli arresti eseguiti dai Carabinieri alle prime luci dell'alba nell'ambito di un'operazione ribattezzata "Kyterion 2". Circa cento militari dell'Arma in servizio presso i Comandi provinciali di Catanzaro e Crotone hanno stretto il cerchio attorno a presunti affiliati alla cosca "Grande Aracri", i cui interessi economico-criminali si dipanano da Cutro fino alle regioni settentrionali. I reati contestati a vario titolo vanno dall'associazione mafiosa all'estorsione, dall'omicidio all'usura. I provvedimenti restrittivi, disposti dai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, hanno messo nel mirino anche alcuni fra i personaggi considerati al vertice del clan che opera in particolare nelle località ioniche della provincia di Crotone. L'inchiesta, sfociata nel blitz di stanotte, ha pure fatto luce, secondo gli inquirenti, sull'assassinio di Antonio Dragone, uno dei capi dell'antica 'ndrangheta gravitante in quella ampia porzione di territorio ed ucciso dodici anni fa da killer che agirono armati di mitra e pistola. Sulla scorta di quanto emerso nel corso dell'attività investigativa, i Grande Aracri nel corso del tempo si sarebbero ritagliati un ruolo di rilievo anche nelle province di Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia. I particolari dell'azione terminata pochi minuti fa verranno illustrati nel corso di un incontro con i giornalisti convocato per le 11 negli uffici della Procura della Repubblica di Catanzaro.  

'Ndrangheta vibonese, operazione "Libra Money": confiscati beni al clan Tripodi

Dalle prime ore di oggi, in diverse località della provincia di Vibo Valentia, nonché a Roma, Milano, Bologna, Monza, Padova e Messina, i militari del Comando Provinciale dei Carabinieri e del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Vibo Valentia, supportati dai Reparti locali, nonché dai Finanzieri dei Nuclei di Polizia Tributaria di Milano e Bologna e del Gruppo di Monza, stanno eseguendo un provvedimento di confisca di beni, emesso dal Tribunale di Vibo Valentia, Sezione Misure di Prevenzione, su proposta della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, nei confronti di esponenti e sodali della cosca di 'ndrangheta Tripodi di Vibo Valentia Marina, ritenuti responsabili dei reati di associazione di tipo mafioso, trasferimento fraudolento di valori, usura, estorsione, illecita detenzione di arma comune da sparo e frode nelle pubbliche forniture (reati aggravati dalle modalità di cui all’art. 7 L. 203/91).  Il provvedimento odierno discende dall’attività investigativa sui Tripodi coordinata dalla Direzione Distrettuale Aantimafia di Catanzaro,  seguita dal Procuratore Aggiunto Giovanni Bombardieri e dal Sostituto Procuratore Pierpaolo Bruni e condotta  dai Carabinieri e dalla Guardia di Finanza. Il decreto riguarda, tra l’altro, 13 aziende, tra cui alcuni bar e ristoranti nel centro di Roma ed in provincia di Milano ed imprese edili operanti in Milano, Padova, Roma e Vibo Valentia, quote di società operanti in provincia di Bologna, Roma e Vibo Valentia, 31 immobili, di cui 10 fabbricati di pregio in Milano e Roma e 21 terreni ubicati in parte in provincia di Roma ed in parte in quella di Vibo Valentia, 13 tra automezzi industriali ed autoveicoli. Il valore complessivo dei beni confiscati ammonta a circa 37 milioni di euro. L’operazione pone il sigillo finale ad una complessa e prolungata attività investigativa, che ha permesso di accertare l’operatività della citata cosca Tripodi, ricostruendone le attività illecite nell’arco temporale 2006-2012, le dinamiche interne ed esterne, nonché i variegati interessi economici in diverse Regioni. Il quadro emerso è quello, secondo gli inquirenti, di un’organizzazione dedita all’infiltrazione, attraverso società direttamente riconducibili ad alcuni esponenti della cosca od intestate a prestanome, perlopiù operanti nel settore dell’edilizia, nei lavori pubblici lungo la costa vibonese e in opere pubbliche realizzate in altre località del territorio nazionale; all’utilizzo di numerose società riconducibili alla cosca, che costituiscono lo strumento per la commissione dei reati e in particolare per l’accaparramento degli appalti, tanto da poter far ritenere la cosca una vera e propria holding di ‘ndrangheta; all’usura, accertata in particolare nei confronti di un commerciante di autovetture vibonese ed alle estorsioni ai danni di altri operatori economici, attuate anche attraverso l’imposizione del pagamento di fatture per prestazioni in realtà mai eseguite nonché dell’acquisto di beni e prestazioni d’opera dalle ditte riconducibili al sodalizio. Tale attività investigativa ha registrato il fermo di 20 indagati nel maggio del 2013 (operazione "Libra"), seguito nel luglio 2014 dall’esecuzione di un provvedimento di sequestro preventivo dei beni ora sottoposti a confisca e dal riconoscimento in sede giudiziaria dell’esistenza della cosca Tripodi avvenuta per effetto della sentenza del Tribunale di Catanzaro n. 30/2015 del 4 febbraio 2015.  Nel luglio 2015, infine,  è stato catturato il latitante Salvatore Tripodi, scovato dai militari dell’Arma in un covo di Zambrone,  in provincia di Vibo Valentia, insieme a due presunti fiancheggiatori, arrestati per favoreggiamento. Con il provvedimento di confisca, inoltre, è stata applicata la misura di prevenzione della Sorveglianza Speciale con obbligo di dimora nel Comune di residenza a carico di sei indagati residenti nella provincia di Vibo Valentia.  I particolari dell’attività saranno illustrati nel corso di una conferenza stampa, presieduta dal Procuratore Aggiunto della DDA Dott. Giovanni Bombardieri, che avrà luogo alle ore 11 di oggi 30 dicembre  presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro. 

 

'Ndrangheta, "pentito" inattendibile: assolti 8 presunti affiliati al clan Mancuso

Il Collegio Giudicante del Tribunale di Vibo Valentia ha disposto l'assoluzione di otto persone che sedevano sul banco degli imputati e considerati personaggi di rilievo della cosca Mancuso di Limbadi. A mandare in frantumi le tesi della pubblica accusa è stata l'inattendibilità, secondo quanto deciso in sede di verdetto, dei racconti resi dal testimone di giustizia Alfonso Carano. Contestualmente, infatti, i magistrati hanno ordinato che le sue affermazioni vengano trasmesse agli uffici della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro affinché si proceda contro di lui per il reato di falsa testimonianza.  Il rappresentante della pubblica accusa in aula per conto della DDA catanzarese, Camillo Falvo, si era espresso per una condanna a complessivi ottantasette anni di reclusione. Lo stesso pubblico ministero ha già annunciato che ricorrerà in Appello. Il verdetto riguarda: Pantaleone Mancuso, soprannominato "l'Ingegnere", nei confronti del quale era stata avanzata una richiesta di condanna a sedici anni di carcere; Diego Mancuso (richiesti 14 anni); Domenico Mancuso, figlio del presunto boss Giuseppe Mancuso, (richiesti 8 anni); Francesco Mancuso, noto come "Tabacco" (richiesti 9 anni); Giovanni Mancuso (richiesti 12 anni); Vincenzo Addesi (richiesti 9 anni), di Soriano Calabro; Salvatore Cuturello, genero di Giuseppe Mancuso, (richiesti 8 anni); Salvatore Valenzise (richiesti 11 anni). Erano accusati, a vario titolo, di danneggiamenti, spari in luogo pubblico, sequestro di persona, usura, violenza privata, tutti reati, aggravati dalle modalità mafiose.

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'Ndrangheta, operazione "New Fear": in carcere Pietro Labate, presunto boss dell'omonima cosca

Personale del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, ha eseguito un decreto di fermo di indiziato di delitto nei confronti di Pietro Labate, considerato esponente di vertice dell’omonima cosca - per il reato di intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.) aggravato dalle finalità nonché dalle modalità mafiose (art. 7 D.L. n. 152/1991). Il provvedimento pre-cautelare rappresenta l’epilogo della complessa e articolata attività investigativa svolta dal Nucleo di Polizia Tributaria - G.I.C.O. che, in tempi stretti, avrebbe consentito di accertare le minacce perpetrate da Labate ai danni di una testimone in un importante processo in corso nei confronti di presunti esponenti di vertice dell’omonima cosca, che rappresenta la naturale prosecuzione di quello scaturito dalla cosiddetta. operazione "Gebbione". Nel corso delle indagini, è emerso che Pietro Labate avrebbe posto in essere una subdola e implicita attività intimidatoria - con modalità e per finalità mafiose - nei confronti della testimone volta a condizionare quest’ultima a rendere, nel processo in corso di celebrazione, dichiarazioni false ovvero reticenti. A tale Pietro Labate avrebbe adottato modalità allusive, ma estremamente efficaci con cui minacciare la testimone, secondo una modalità operativa, secondo gli inquirenti, tipica dei soggetti la cui storia e fama criminale rendono sufficiente l’evocazione del proprio nome per raggiungere lo scopo intimidatorio. Alla luce del suddetto quadro probatorio la locale D.D.A. ha emesso il provvedimento in argomento in considerazione dei gravi indizi di reità emersi, a parere degli investigatori, a carico di Pietro Labate e tenuto conto del pericolo di fuga di quest’ultimo – già per lungo tempo latitante – reso più probabile, è il pensiero dei titilari delle indagini, dalla contestuale detenzione del fratello Michele e, quindi, dall’avvertita necessità che la cosca non fosse privata dei sospetti principali dirigenti territoriali. Il provvedimento di fermo è stato immediatamente eseguito dai militari del G.I.C.O. con la traduzione di Pietro Labate presso la casa circondariale "G. Panzera" di Reggio Calabria. 

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Omicidio del Procuratore della Repubblica di Torino: arrestato panettiere calabrese

Sarebbe uno dei due autori materiali dell'omicidio di Bruno Caccia, all'epoca a capo della Procura della Repubblica di Torino. Un delitto, quello commesso il 26 giugno del 1983, che fece molto scalpore. Il magistrato stava conducendo diverse inchieste sulla 'ndrangheta, ma le indagini sul suo assassinio puntarono prima la pista del terrorismo, sia "rosso" che "nero". Oggi, trentadue anni più tardi, gli agenti della Squadra Mobile, eseguendo un'ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Milano, hanno catturato Bruno Schirripa, reggino trapiantato a Torino dove svolgeva il mestiere di fornaio in una zona periferica del capoluogo piemontese. Quattordici gli spari che scossero il tranquillo quartiere precollinare in cui viveva Bruno Caccia. Fu sorpreso dai killer davanti alla sua abitazione, era in compagnia del suo cane. Ventidue anni fa a finire in manette era stato Domenico Belfiore, che avrebbe ordinato l'omicidio, oltre ad averlo eseguito materialmente con il supporto di Schirripa. A Belfiore, ritenuto uno dei personaggi di maggior spessore criminale della 'ndrangheta attiva in Piemonte, è stata inflitta successivamente la condanna del carcere a vita. Da poco più di sei mesi, ragioni legate alle sue condizioni fisiche gli hanno consentito il trasferimento agli arresti domiciliari. 

 

 

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'Ndrangheta, operazione "Il Principe": dettagli e nomi degli arrestati

Alle prime ore della mattinata odierna, la Squadra Mobile della Questura ed il Nucleo Investigativo del Reparto Operativo dei Carabinieri di Reggio Calabria hanno dato esecuzione ad un decreto di fermo di indiziato di delitto emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, nei confronti di cinque soggetti, accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione ed intestazione fittizia di beni, aggravati dalle finalità mafiose: il 39enne Giovanni Maria De Stefano, alias "Il Principe"; Fabio Salvatore Arecchi, 38 anni; Francesco, detto "Ciccio" Votano, 27 anni; Vincenzo, detto "Dino", Morabito, 47 anni; Arturo Assumma, 30 anni. Tutti di Reggio Calabria. L’operazione è il frutto di due distinte ed originariamente autonome attività investigative condotte dalla Squadra Mobile e dal R.O.N.I. dei Carabinieri di Reggio Calabria: le prime incentrate sulla figura e sulle presunte attività criminali di Giovanni Maria De Stefano, rampollo della famiglia rimasto in libertà, che avrebbe esercitato il governo territoriale della cosca; le seconde sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Enrico De Rosa, con riferimento alle attività estorsive poste in essere ai danni della CO. BAR S.p.a., esecutrice dei lavori di ristrutturazione del Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio Calabria. Il coordinamento delle attività investigative e la fusione degli esiti autonomamente raggiunti in ciascun procedimento, ha consentito all’Autorità Giudiziaria di fotografare, con straordinaria chiarezza a parere degli investigatori, i contorni della struttura dirigenziale territoriale della cosca De Stefano, da anni egemone nel territorio di Reggio Calabria, le modalità operative funzionali alla fluida gestione dell’organizzazione di 'ndrangheta, nonché di accertare dettagliatamente l’esecuzione di un’estorsione protratta nel tempo ed esercitata con svariate modalità esecutive ai danni dei rappresentanti della  società CO.BAR. Le indagini avrebbero consentito di dimostrare come la cosca De Stefano agirebbe con speciale autorevolezza criminale nella zona del centro della città di Reggio Calabria, attraverso l’esercizio dell’intimidazione. Peraltro, recentemente sono stati scarcerati Orazio De Stefano, 56 anni, (scarcerato al 19 settembre dello scorso anno) e Paolo Rosario De Stefano, 39 anni  (scarcerato il 19 agosto). Entrambi erano stati tratti in arresto dopo lunghi periodi di latitanza, al pari del più grande dei figli del defunto "don Paolo", ovvero Carmine De Stefano, 47 anni, che aveva pienamente condiviso col più noto fratello Giuseppe, 46 anni, gran parte delle vicende giudiziarie afferenti il clan mafioso, ereditando unitamente a quest’ultimo, la reggenza e la gestione criminale della cosca. Nel periodo antecedente alle scarcerazioni, un ruolo speciale sarebbe stato ricoperto da Giovanni Maria De Stefano, figlio del defunto Giorgio De Stefano, quale unico rampollo della storica famiglia che - all’indomani della sua liberazione, avvenuta nel mese di settembre 2009 - l’avrebbe rappresentata sul territorio, assumendone la reggenza. A Giovanni De Stefano (unitamente a Vincenzino Zappia, già detenuto poiché arrestato dalla Polizia di Stato, nell’ambito dell’Operazione "Il Padrino", nel mese di dicembre dello scorso anno), viene contestato il ruolo di capo e promotore con compiti di direzione, decisione, pianificazione e individuazione delle azioni e delle strategie del sodalizio criminoso. Nello specifico, egli avrebbe assunto  le scelte più rilevanti in ordine alle concrete modalità di controllo e gestione delle molteplici attività economiche e degli esercizi commerciali esistenti e/o di nuova apertura nel territorio di Reggio Calabria. Coordinava e pianificava, sulla scorta di quanto ipotizzato in fase d'indagine, le attività delittuose, anche di natura estorsiva, ai danni di ditte o imprese operanti nel territorio, reinvestendo i proventi illecitamente ottenuti e destinando una parte degli stessi a garanzia di un adeguato sostegno economico dei sodali detenuti e dei loro familiari. Dirimeva, è il giudizio degli inquirenti, le varie problematiche ed i contrasti, interni ed esterni al sodalizio, anche in ordine alla suddivisione tra gli associati degli ingenti ricavi illecitamente prodotti ed accumulati. Avrebbe cooperato costantemente anche con gli altri soggetti al vertice della medesima articolazione territoriale della 'ndrangheta ai fini della realizzazione del programma criminoso. Un ruolo di primo piano sarebbe attribuito a  Demetrio Sonsogno (già detenuto, poiché tratto in arresto nell’ambito dell’operazione 'Tatoo' condotta dalla Squadra Mobile nel mese di novembre 2013), quale dirigente organizzatore, con compiti di diretto controllo e gestione delle attività estorsive - poste in essere direttamente e per il tramite di altri sodali - e d’infiltrazione degli interessi patrimoniali della cosca nell’economia lecita, nonché di controllo delle attività economiche avviate e da avviare, anche al fine di garantire il necessario sostegno ai massimi dirigenti della cosca detenuti ed ai loro familiari. Nell’ambito della cosca De Stefano, Fabio Salvatore Arecchi e Francesco Votano (unitamente, anche con compiti e condotte diverse, ad Enrico De Rosa)avrebbero il ruolo di partecipi, con lo stabile compito di fungere da continuativi intermediari tra i sodali e, in particolare, tra Giovanni De Stefano e gli altri associati, ricevendo e riportando svariati messaggi funzionali alla migliore operatività della cosca e collaborando fattivamente alle attività economiche intestate fittiziamente ad Arecchi, le cui sedi operative sarebbero divenute anche punto logistico per lo scambio di messaggi tra i sodali e strumento di riciclaggio delle attività delittuose perpetrate dalla cosca. Giovanni Maria De Stefano, Vincenzino Zappia,  Demetrio Sonsogno,  Vincenzo Morabito, Arturo Assumma ed Enrico De Rosa, per cui si procede separatamente) rispondono anche dell’accusa di estorsione aggravata posta in essere ai danni CO.BAR. spa. che ha eseguito i lavori di ristrutturazione del Museo della Magna Grecia di Reggio Calabria. Invero, costoro, in tempi diversi e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, con minacce e violente intimidazioni, avrebbero costretto Vito Matteo Barozzi e la società CO.BAR spa (di cui il medesimo Barozzi è il titolare del 95% delle quote sociali ed amministratore) a corrispondere - tramite il geometra Domenico Trezza ed in quattro distinte occasioni – somme di denaro di differente importo ed in particolare: in una prima occasione, a consegnare a  Vincenzo Morabito, detto Dino, una somma di denaro pari a 15/20.000,00 euro circa (somma successivamente prelevata, sostengono gli investigatori, da  Enrico De Rosa, e da Sonsogno); in una seconda occasione, a consegnare a Sonsogno ed a De Rosa nei pressi di un ingresso laterale del Museo della Magna Grecia di Reggio Calabria una somma di denaro pari a 45/50.000,00 euro circa; in una terza occasione, a consegnare ad Enrico De Rosa una somma di denaro pari a 50.000,00 euro circa (somma che successivamente sarebbe stata da quest’ultimo corrisposta a Sonsogno);  in una quarta occasione, sempre sulla scorta di quanto ipotizzato dagli investigatori, a consegnare ad Arturo Assumma, una somma di denaro pari a 50/60.000,00 euro circa (somma che sarebbe stata successivamente prelevata da De Rosa e corrisposta al Sonsogno). Giovanni Maria De Stefano e Fabio Salvatore  Arecchi sono anche indagati per il delitto di intestazione fittizia di beni, perché, in concorso fra loro, al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale, Giovanni De Stefano avrebbe attribuito fittiziamente a Fabio Salvatore Arecchi la formale titolarità dell’impresa individuale G.D.C. Distribuzione di Fabio, Arecchi avente ad oggetto il "commercio all’ingrosso di caffè, zucchero, bevande ed alimenti vari", con unità locale dislocata dapprima a Reggio Calabria in via del Salvatore n. 28/30 ed infine, dal maggio 2013, soltanto in via Vecchia Provinciale n. 101 (luogo ove la stessa impresa ha anche la sede legale). Contestualmente è stata data esecuzione al sequestro preventivo dei beni costituenti il patrimonio aziendale dell’impresa individuale “G.D.C. Distribuzione di Fabio Arecchi", avente ad oggetto il "commercio all’ingrosso di caffè, zucchero, bevande ed alimenti vari", con unità locale dislocata dapprima a Reggio Calabria in via del Salvatore n. 28/30) ed infine dal maggio 2013 in via Vecchia Provinciale n. 101. Il quadro complessivo delle risultanze investigative ha consentito di ritenere sussistente il pericolo di fuga in capo a Giovanni Maria De Stefano, Vincenzo Morabito, Arturo Assumma, Francesco Votano e Fabio Salvatore Arecchi, sicché, nei confronti degli stessi, è stato emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria il provvedimento di fermo di indiziato di delitto eseguito dai Carabinieri e dalla Polizia di Stato nella mattinata odierna. L’operazione "Il Principe" prende il nome dall’appellativo con cui i sodali erano soliti chiamare Giovanni Maria De Stefano, il quale, da diversi anni, svolgerebbe funzioni di reggente della omonima cosca di 'ndrangheta, segnatamente nel settore delle estorsioni. 

 

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