Di "Trasversale" solo le promesse

 Detengo un prezioso documento: la prima riunione per parlare della Trasversale delle Serre, allora detta Superstrada; e la annunziò come imminente. Era il 1968, io frequentavo ancora il Liceo.

 Quell’anno stesso m’iscrissi all’Università di Pisa, e lì feci il Sessantotto, con prolungamento l’anno seguente. Via, era troppo presto perché fosse finita la Trasversale delle Serre, siamo onesti.

 Era poi l’anno 1971 quando io, sì, proprio io, avendo in corso una complessa storia d’amore con una fanciulla abitante sul Tirreno, io, sì, proprio io, io peggio del più squallido politicante calabro, le dissi queste immortali parole o giù di lì: “Cara, sarà facile vederci, perché tra poco faranno la Trasversale delle Serre”. Vi prego di credermi, lo giuro, è vero.

 Era poi l’anno 1985, credo, e a Serra, come accadeva allora ogni anno, c’erano le elezioni comunali; venne tale Tassone Mario con un funzionario dell’ANAS, e ci dimostrò, carte alla mano, che erano stati stanziati i soldi per la Trasversale. Io, carte alla mano, feci due conti, e, presa la parola, obiettai che potevano fare esattamente un chilometro e settecento metri. Sarebbe quella specie di allargamento dalle parti di Vallelonga. Dite voi: e Vallelonga che c’entra? C’entra, perché in quegli anni tutti i sindaci dell’Istmo e dintorni volevano la Trasversale sotto casa, e il progetto cambiò una ventina di volte senza un centimetro di asfalto.

 Passò il 1971, il 1972, 3, 4, 5… 1980… 1990… Arrivò nel 1994 al potere Berlusconi con il MSI e la Lega, e in quel di Chiaravalle io, sì, proprio io, partecipai come relatore a un convegno che, presenti alcuni esponenti di quel fugace governo e dintorni, dichiarò che la Trasversale era “cantierabile”; io commentai che prendevo atto, anche in cuor mio sentivo che questa melodiosa parola era troppo strana per sembrarmi traduzione di “inizieremo i lavori domani”; e così, infatti, non fu.

 Fecero poi quella che, al massimo, possiamo chiamare Tangenziale di Chiaravalle. Arrivò il governo D’Alema (sì, o italiani, abbiamo visto anche questo!) con sottosegretario Soriero, il quale pensò bene che il traffico convulso di Argusto, nota e popolosissima metropoli, aveva bisogno di almeno due svincoli, uno ovest e uno più o meno est; e qualche miliardo di lire dell’epoca volò per soddisfare la più ridicola vanagloria.

 Si tracciò poi persino il tratto Gagliato – Argusto, che è lì, che è pronto da anni e anni, ha tutto, asfalto eccetera, però ad Argusto ne impediscono l’accesso dei veri megaliti di cemento. Davvero un mistero, che nessuno mi vuole svelare. ma il 15 novembre 2001 la stampa annunziava imminente l’apertura, entro un anno. Dal 2002 sono passati 13 anni invano.

 Aggiungiamo il tratto di Spadola e quello di Serra, e questo è tutto, dal 1968!

Una paroletta sulla qualità. La locuzione superstrada è già di per sé arcaica, roba da anni 1960, un esperimento che poi si abbandonò. Il risultato attuale è una strada a due corsie con divieto continuo di sorpasso (violato alla grande, ma divieto), sicché, se mai finirà e uno volesse davvero, come io promisi nel 1971, da Soverato raggiungere il Tirreno, e per disgrazia gli capita davanti un’Ape Piaggio, allora gli conviene di più la gloriosa murattiana, borbonica e fascista 182 con scorciatoia Filogaso!

 Alla prossima, la Bretella di Gagliato. Una barzelletta per volta, ragazzi.

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Serra: Ospedale senza impianto antincendio

Si arricchiscono di nuovi particolari le rivelazioni fatte, martedì scorso, dal “Redattore”, sul mancato funzionamento dell’impianto antincendio al primo pianto dell’ospedale di Serra San Bruno. Pare, infatti, non solo che l’impianto sia, allo stato, fuori uso, ma che addirittura non sia mai stato completamente installato. Secondo quanto siamo riusciti ad apprendere, la ditta che stava svolgendo i lavori, ad un certo punto avrebbe sospeso la propria attività. L’installazione, pertanto, non sarebbe mai stata completata. Alla luce di tale situazione, i dubbi e gli interrogativi si fanno sempre più legittimi. A questo punto, chi di dovere, farebbe bene ad intervenire per cercare di dare delle risposte. Tanto più che le domande sollevate rimangono tutte sul tappeto. Quanto è stato speso per un impianto antincendio che non sarebbe stato neppure installato? Perché i cappuccetti che ostruiscono i rilevatori di fumo sui quali campeggia la scritta “remove before use” non sono mai stati rimossi? Da quanto tempo sono lì? E’ vero o non è  vero che la ditta non ha mai consegnato i lavori? E’ vero o meno che l’installazione non è mai stata completata? Domande che necessitano di urgenti risposte, tanto più che la situazione coinvolge il pronto soccorso, l’astanteria, la radiologia ed il reparto analisi, ovvero i luoghi in cui sono presenti strumentazioni ed apparecchiature sottoposte a pesanti carichi di corrente che fanno aumentare notevolmente la temperature. A ciò si aggiunga che, per loro natura, le strutture sanitarie sono classificate a rischio di incendio elevato per la complessità delle attività svolte, degli impianti tecnologici che vi operano e per le particolari condizioni di salute delle persone ospitate. In un ospedale la principale misura di tutela è rappresentata, sotto ogni profilo, dalla prevenzione ovvero da tutti quegli accorgimenti tecnici e di comportamento umano che servono per prevenire adeguatamente il rischio di un incendio. A questo punto, la domanda più pertinente, è la seguente: cosa potrebbe succedere se dovesse scoppiare un incendio?

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Serra - Ospedale: fuori uso l'impianto antincendio?

Chi, pur in un momento di estremo bisogno, alzasse gli occhi trovandosi al primo piano del nosocomio di Serra San Bruno, avrebbe l’impressione di vedere sul soffitto degli strani dischetti di colore giallo. Una volta escluso che si tratta di dischi volanti, il secondo interrogativo che lo sbigottito osservatore si pone è il seguente: di cosa si tratta? Semplice. Sono i cappucci che ostruiscono i rilevatori di fumo dell’impianto antincendio di cui pure sarebbe dotato l’ospedale serrese ma che, a quanto pare, non sarebbero entrati in funzione. Già, perché la dicitura sopra il cappuccio è abbastanza eloquente: “remove before use”. E allora ci chiediamo, da quanto tempo sono lì? Perché non sono stati rimossi? L’impianto antincendio è stato omologato? E se sì, perché, come pare, non è ancora entrato in funzione? Una situazione che riguarda il pronto soccorso, l’astanteria, la radiologia e il reparto analisi. Tutti luoghi dove si trova la maggior parte della strumentazione sottoposta a carichi di corrente, sollecitazioni e temperature piuttosto importanti, basti pensare alla sala tac dove la temperatura è mediamente più alta rispetto alle altre sale del nosocomio. L’impianto di rilevazione fumi ed incendi è obbligatorio per legge, in molti casi la sua importanza in aziende, ospedali, centri commercaili e luoghi pubblici in genere, è fondamentale, spesso addirittura essenziale. Di norma, bastano pochi minuti per stabilire se un incendio potrà essere estinto o solo contenuto, e questa possibilità dipende dalla velocità con cui lo si individua, appunto grazie ai rilevatori di fumo. Le strutture sanitarie, infatti, sono per definizione classificate a rischio di incendio elevato per la complessità delle attività svolte, degli impianti tecnologici con i quali si opera e per le particolari condizioni di salute delle persone ospitate. In un ospedale la principale misura di tutela è rappresentata, sotto ogni profilo, dalla prevenzione ovvero da tutti quegli accorgimenti tecnici e di comportamento umano che servono per prevenire adeguatamente il rischio di un incendio. Proprio all’ospedale, dunque, luogo che nell’immaginario collettivo dovrebbe tutelare più di ogni altro la salute e la sicurezza dei suoi ospiti, tutto quello che abbiamo raccontato lascerebbe presupporre che l’impianto antincendio non funzioni.

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ESCLUSIVO - Arriva la neve, ritornano i lupi

 SERRA SAN BRUNO - Con la neve ritornarono i lupi. Non erano più i padroni incontrastati del bosco e della montagna, allontanati dallo sviluppo antropico, scacciati ed uccisi per impedirne le scorrerie, i branchi di lupi erano, ormai, spariti da decenni. Erano diventati poco più di un lontano e sfuocato ricordo di cui, i più giovani, avevano solo sentito parlare. Ora, invece, complici gli interventi di ripopolamento e gli ampi spazi in cui possono scorrazzare liberamente, protetti dal Parco regionale, i lupi sono ritornati a farsi vedere nei boschi delle Serre. Era capitato altre volte che qualcuno avesse dichiarato di aver avvistato qualche esemplare, tuttavia, i riscontri, erano stati, sempre, piuttosto aleatori. Questa volta, invece, a seguito delle ultime nevicate, i lupi si sono fatti vedere e non solo. A comprovarlo, una straordinaria testimonianza fotografica, di cui “Il Redattore” è entrato in possesso, che ne conferma la presenza nelle montagne delle Serre. In particolare, lo scatto sarebbe stato effettuato nei boschi collocati a ridosso della vecchia ferriera borbonica di “Ferdinandea”. Si tratta di un documento eccezionale, offertoci da un nostro lettore, il quale ci ha spiegato che “ a causa della neve, la disponibilità di prede si riduce notevolmente, pertanto, i lupi sono costretti ad allontanarsi dalle loro usuali aree di caccia”. In una situazione del genere, quindi, è stato possibile avvistare lo sparuto ed affamato branco uscito dal bosco in omaggio al più elementare e naturale degli istinti, quello di sopravvivenza. Con la loro ricomparsa, si può, ora dire, senza tema di smentita, che quello di questo giorni è proprio un tempo da lupi!

 

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Il Redattore e l'eresia della verità

Potremmo esordire in questo nostro primo incontro con i lettori facendo ricorso ad un abusato: “saremo un giornale libero ed indipendente”. Potremmo, ma non lo faremo. Risparmiamo a voi la fatica di leggerlo ed a noi quella di scriverlo, perché nessun giornale avrà mai la schiettezza ed il coraggio di affermare il contrario. Anzi, l’indipendenza e la libertà, il più delle volte, sono inversamente proporzionali alla frequenza con le quali si rivendicano e si declamano. Noi, al contrario, ci proponiamo di non essere né liberi, né indipendenti.

Non saremo liberi, perché non ci prenderemo alcuna licenza non conforme ai principi fondamentali del rispetto degli altri e del buon senso. In nome della libertà non violeremo la vita privata o la dignità di nessuno, non travalicheremo le regole del buongusto e della decenza, non ci trasformeremo in un’arena in cui uomini e donne si danno in pasto ai leoni pur di compiacere gli spettatori.

Non saremo liberi, quindi, ma non avremo padroni!

Saremo, inoltre, fieramente dipendenti, perché assoggettati alla nostra coscienza ed ai valori nei quali crediamo. Ci asterremo, pertanto, dal prendere parte alle quotidiane Olimpiadi del ciarlatanismo, del turpiloquio e della calunnia. Consapevoli dell’esistenza di lettori, ancora in grado di distinguere tra fermezza e virulenza, all’urlo sguaiato e scomposto preferiremo, sempre, il ragionamento pacato ed il civile confronto.

Detto ciò che non faremo e saremo, ci preme dire, ciò, che, invece, cercheremo di fare e di essere.

Racconteremo i fatti con obiettività e rigore, tenendo, in campi ben distinti e separati, l’informazione ed il commento, il fatto e l’opinione.

Un punto, poi, dal quale non defletteremo mai, sarà la ricerca della verità. Pertanto, faremo guidare i nostri passi al dubbio, nella consapevolezza che niente nasconde così bene la menzogna come la verità. Non confezioneremo, quindi, teoremi e non cercheremo d’inverare tesi precompilate, fondate sull’idea che tra i buoni ed i cattivi a noi il destino ha regalato la parte dei buoni. Non ci faremo, dunque, condizionare da nessuna pregiudiziale di simpatia o di rancore e lo dimostreremo non negando ospitalità o diritto di replica a quanti non la pensano come noi.

La ricerca della verità e la vocazione al dubbio rappresenteranno i postulati della nostra eresia. Un’eresia che ci farà rifuggire la chiesa affabulatoria ed inconcludente del politicamente corretto e quella sorniona e silente del conformismo. Saremo eretici, inoltre, perché nel cercare la verità, non saremo mai indulgenti. Non saremo compiacenti con chi sta in alto, ma neppure con chi sta in basso. Non ometteremo di scrivere ciò che potrebbe urtare la suscettibilità dei “potenti”, ma non scriveremo neppure ciò che il “popolo” vuole o preferisce leggere. Saremo eretici, perché, cercheremo sempre e solo la verità. E se è vero come è vero che i “fatti sono nemici della verità” è altrettanto vero che, in Calabria, nessuno può essere più eretico di chi cerca e dice la verità!

La Redazione: Bruno Vellone – Angelo Vavalà – Michele Grenci - Biagio La Rizza – Mirko Tassone

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San Biagio ed il biscotto dell'amore

SERRA SAN BRUNO - Al ricco e variegato calendario liturgico serrese non sfugge il mese di febbraio. Il terzo giorno del secondo mese dell’anno, il mese del carnevale e della Quaresima, nella cittadina della Certosa porta con sé le celebrazioni in onore di san Biagio. Una festa singolare, così come singolare era la circostanza che, fino a qualche tempo addietro, il Santo fosse il patrono del paese di san Bruno. Una peculiarità la cui origine è piuttosto oscura. Se, da una parte, infatti, è sufficientemente chiaro il legame, di origine bizantina, tra la Calabria ed il Santo protettore della gola, avvolto nella nebbia del mistero è, invece, quello con la cittadina delle Serre, dove il culto, potrebbe essere arrivato in maniera piuttosto rocambolesca. A cercare di stabilirne l’origine, non senza una buona dose d’indeterminatezza, è, nella prima metà dell’Ottocento, don Domenico Pisani che, nel resoconto, fatto per la “Platea”, ovvero la “Cronistoria di Serra San Bruno” redatta dai cappellani della chiesa Matrice, rivela che: «venendo qui al di loro travaglio degli uomini, e passando per le vie della Lacina, ove vi era una chiesetta diruta dedicata a S. Blasi, vi tolsero il quadro ivi inculto, che portarono nella di loro chiesetta, ove non sappiamo se dalla pubblica devozione, o d’altro fu dichiarato Protettore e Patrono». Il culto, dopo aver percorso le accidentate e tortuose vie della fede, nella cittadina bruniana deve essersi diffuso con una certa rapidità, al punto tale che la chiesa Matrice è vocata, proprio, a san Biagio. Ciò che, invece, non nasconde misteri è la lunga tradizione, tutta serrese, sviluppatasi attorno alla festa del Santo. Alle manifestazioni liturgiche, caratterizzate da una processione molto partecipata che per tre volte faceva il periplo della chiesa Matrice, si associavano e si associa, tuttora, una singolare tradizione dolciaria. Ieri, come, oggi, infatti, i fedeli si recano in chiesa per far benedire gli “abbaculi”, tipici biscotti dall’inconfondibile forma del pastorale, il bastone usato dai vescovi durante le funzioni. Al di là del riferimento liturgico e religioso, per secoli, gli “abbaculi” hanno rappresentato un vero e proprio suggello d’amore. Secondo la tradizione, infatti, nel giorno dedicato a san Biagio, il fidanzato donava alla promessa sposa un “abbaculu” decorato con mandorle e confetti. Una volta benedetto, il biscotto veniva spezzato in due parti; la parte diritta rimaneva alla rappresentante del gentil sesso, mentre quella ricurva veniva restituita al futuro sposo. Una sorta di san Valentino in salsa serrese, caratterizzato dal riferimento, neppure troppo velato, alla sessualità ed alla fecondità della coppia. Passati gli anni in cui la statua del Santo, durante la terza domenica d’agosto, veniva condotta al calvario, i serresi, nella giornata del tre febbraio non si sottraggono alla benedizione della gola attraverso l’imposizione di due candele incrociate. Le due candele, rimandano al rito della Candelora, che, secondo Alfredo Cattabiani, avrebbe mutuato dalla festa in onore della dea Februa, ovvero Giunone, l’usanza pagana di percorrere le strade impugnando fiaccole accese, in segno di purificazione. Tutto cristiano, invece, il culto legato alla benedizione della gola. Secondo la tradizione, infatti, mentre veniva condotto a Sebaste (Armenia) per essere processato e poi condannato a morte, durante una persecuzione del IV secolo, san Biagio avrebbe salvato la vita ad un bambino in procinto di soffocare a causa di una lisca conficcataglisi in gola.

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Cantine "Benvenuto: Ulisse ritorna in patria!

Passando dal lago dell’Angitola, e fermandomi a fare qualche foto con il mio nuovo smartphone super teconologico, cercavo di scrutare  oltre “l’orizzonte” per capire dove si trovasse di preciso questa nuova realtà che da li a poco avrei scoperto; una nuova cantina a Francavilla Angitola: quando vennero a pranzo allo "ZenZero" e mi portarono la campionatura, invitandomi in azienda, capii subito che avrei avuto a che fare con persone umili, sapienti e professionalmente preparate. Il lago, baciato da un carico sole autunnale che si rifletteva anche nell’obbiettivo del mio telefonino, lasciava spazio soltanto all’immaginazione, e così rimettendomi in macchina con i miei compagni di viaggio riparto alla ricerca di questo luogo…

Al bivio dell’autostrada incontro Alessandro che mi indica la via. Attraversiamo una strada di quelle che portano in qualche paesino, una specie di statale con qualche buca di troppo e tanti alberi da frutto ad incorniciare il solito sole, che alle undici era oramai un sole dal profumo estivo. Una svolta secca a sinistra ed una ripida discesa ci fanno intuire che abbiamo raggiunto le cantine Benvenuto. Scendo dall’auto e abbraccio Giovanni, il titolare dell’azienda, il sole è sempre lì, come se volesse indicarmi qualcosa. A primo impatto la cantina risulta leggermente anonima, sembra di stare da un amico in campagna (più tardi ovviamente mi viene spiegato come sarà quando i lavori saranno terminati), ma a me piace pensarla così: una giornata autunnale, da un caro amico in campagna a bere del buon vino (e che vino). Inizio ad isolarmi dal mondo, e a provare le mie sensazioni, mi accorgo di come il tempo quest’anno sia stata particolarmente bizzarro osservando degli alberi da frutto ancora in fiore.Seguo la truppa composta da Giovanni e Alessandro della cantina, Vincenzo, amico di avventura e Claudio, mio fratello. Si va in vigna.Ascolto in lontananza le precise spiegazioni di Giovanni, tutti i racconti sul suo operato, la sua scelta di ritornare in Calabria per inseguire il sogno di rilanciare quella zona dove suo nonno coltivava la terra e la vigna, tutti i suoi progetti futuri… Loro vanno avanti, ormai li sento ma non li ascolto più..

Sentori sempre più freschi mi spiazzano, finalmente ci sono, raggiungo gli altri e scopro quella meraviglia che quel sole da stamattina cercava di suggerirmi. Una vallata incredibilmente ordinata, le vigne a terrazzamenti a sinistra, gli alberi che le proteggono, e questa “V” affacciata sul mare che incanala quel profumo…quel profumo che chiudendo gli occhi mi riporta sul pedalò con gli amici, sulla spiaggia all’alba dopo un falò..a quella grigliata a casa di Totò. Ogni leggero refolo è un ricordo, ogni attimo trascorso su quella collina a respirare a pieni polmoni con gli occhi chiusi quell’aria di sale …  Ah, dovreste sentirlo..

Ritorniamo in cantina, l’interno si presenta molto chic ma allo stesso tempo semplice e moderna. “La fortuna aiuta gli audaci” è il motto dell’azienda, e il mitico Giovanni di  coraggio ne ha davvero tanto… direttamente proporzionale alla sua preparazione ed alla sua umiltà! Un calice si avvicina al rubinetto dell’enorme cisterna con sù scritto zibibbo: “ragazzi questo ancora è mosto, ma potete gia sentire i profumi e farvi un idea su ciò che sarà”, eccolo che ritorna, di nuovo quell’odore, sembra di essere ritornati di nuovo li, in cima a quella vallata, con gli occhi chiusi…e a quella chiacchierata al tramonto su quella spiaggia umida. In ogni bottiglia, anche nei rossi assaggiati in seguito (accompagnati da una buona pitta serrese condita con l’olio nuovo dell’immancabile Mazzitelli), ritorna quel sentore minerale, quel respiro a pieni polmoni, quel vento che arriva dal mare e che stringe ogni singolo acino con dolcezza e protezione, quel vento che questo vignaiolo riesce a far entrare in ogni singola bottiglia. E’ come Ulisse che ritorna in patria portandosi con se i ricordi delle sue avventure e la brezza marina.

Il ritorno di Giovanni Celeste Benvenuto in Calabria, coraggioso e attento, allegro e sensibile…Cinque vini diversi tra loro ma con una caratteristica inconfondibile… sapore di sale, sapore di mare…

Buona “Fortuna” alla cantina…Benvenuto in Calabria!!!

..o meglio BENTORNATO…

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