Patrimonio incompatibile con reddito dichiarato, sequestrati beni per 750 mila euro

I carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di sequestro preventivo e di confisca di beni mobili, immobili, imprese e prodotti finanziari – emessa dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, su richiesta della Procura Generale reggina – riconducibili al patrimonio di Giuseppe Raso, 78enne di Antonimina (RC), della moglie Maria Filippone e dei figli Antonio, Rocco e Francesco, rispettivamente di 31, 32 e 27 anni.

Il provvedimento scaturisce dalle indagini condotte dal Nucleo investigativo reggino, in seguito della condanna a 6 anni di reclusione per associazione mafiosa e all’interdizione perpetua dei pubblici uffici di Giuseppe Raso, soprannominato “avvocaticchio”, tratto in arresto nel 2011 e 2012 nell’ambito delle operazioni “Crimine” e “Saggezza”.

In particolare, dalle indagini sarebbe emersa la sproporzione del valore dei beni posseduti, rispetto ai redditi dichiarati ai fini delle imposte, analizzati nell’arco temporale 2000-2017 e l’insussistenza di fonti di reddito idonee a generare tali accumulazioni patrimoniali.

Peraltro, negli ultimi anni, Raso e la moglie "sono stati più volte deferiti dai militari dell’Arma all’Autorità giudiziaria in relazione ad alcuni episodi di pascolo abusivo e incontrollato di bovini fra Antonimina e Cittanova".

Il provvedimento di sequestro ha interessato un allevamento di bovini, con oltre cento capi di bestiame, un terreno, due fabbricati e svariati rapporti bancari, titoli obbligazionari e polizze assicurative.

Il valore complessivo dei beni sequestrati, ammonta a circa 750 mila euro.

Operazione Saggezza. Assoluzioni eccellenti: scarcerato Giuseppe Fabiano, Procura aveva chiesto 18 anni di reclusione

E' stato assolto con la formula per non aver commesso il fatto Giuseppe Fabiano, cinquantenne di Platì, difeso dagli avvocati Marco Tullio Martino (coadiuvato dal collaboratore di studio, dottor Alessandro Bavaro) e Giuseppe Iemma. Per lui l'ufficio di Procura aveva chiesto una condanna a 18 anni di reclusione perché considerato capo della cosca del locale di Cirella di Platì, componente - insieme agli altri locali - della famosa "Corona" che si interfacciava con Polsi. I legali avevano dimostrato nel corso dell'istruttoria dibattimentale con copiosa documentazione difensiva ed evidenziato nel corpo delle loro arringhe, come non fossero che generiche le affermazioni del collaboratore di giustizia Varacalli che indicava Fabiano quale capo locale di Cirella e che non avessero alcun valore probatorio né la vicenda del furto di un escavatore per il quale sarebbe stato presuntivamente interessato il Fabiano, né le conversazioni ambientali dal corpo delle quali sarebbe emersa un'offerta di aiuto economico in occasione di una precedente carcerazione fatta dal presunto boss Vincenzo Melia proprio ai familiari del Fabiano. Dopo quattro anni di custodia cautelare Fabiano ha così lasciato la casa circondariale di Locri.

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