Reggio ed il terremoto del 1908: morte, distruzione e abbandono

E’ trascorso oltre un secolo dal devastante terremoto che il 28 dicembre 1908 rase al suolo Reggio e Messina. A rammentarne la ricorrenza, più che gli uomini, sono le periodiche ed inquietanti scosse telluriche che si susseguono a largo delle coste calabresi. Segnali con cui le forze della natura sembrano intimare a non dimenticare. Obbedienti, ricordiamo ciò che accadde in Calabria, in particolare a Reggio e dintorni. Dopo il sisma, la città dello Stretto dovette attendere due giorni ed una notte prima che giungesse una qualche forma d’aiuto. Tra la fatale alba del 28 dicembre ed il tragico tramonto del giorno successivo, mentre su Messina convergevano le navi del soccorso internazionale, la città calabrese rimase in balia di se stessa, annichilita, priva di aiuti, preda di approfittatori e ladri. Amaro e impotente fu il commento scritto, a pochi giorni di distanza, dall’inviato della Stampa di Torino, Giuseppe Borghese: “ la povera Reggio è rimasta seconda anche nel compianto degli uomini: la funebre gloria di Messina ha oscurato la sua e perfino la notizia della sua morte tardò più lungamente a propagarsi. Il silenzio tragico che avviluppò per dodici ore Messina durò quasi ventiquattro per Reggio”.  Ai superstiti fu negata anche la soddisfazione di raccontare le proprie peripezie : “ a Reggio i giornalisti son venuti correndo, sono ripartiti correndo: perciò i superstiti sono insoddisfatti, avendo dovuto reprimere quell’avidità di raccontare che è l’unica consolazione di coloro che hanno sofferto le torture e gli spasmi di un inferno terrestre”. Tuttavia, grazie alle “frettolose” cronache di quei primi giornalisti, abbiamo un quadro, per quanto confuso, di quel che avvenne in città nei giorni successivi al terremoto. Sappiamo, ad esempio, che i primi soccorritori giunsero a piedi da Lazzaro, seguiti a breve distanza da una squadra agricola di Cirò, composta da 150 operai armati di vanghe e picconi. “Questa squadra ebbe contegno mirabile e diede aiuto alle migliaia di feriti giacenti presso la stazione. Gli stessi operai provvidero anche allo sgombero della linea ferroviaria favorendo la riattivazione delle comunicazioni ferroviarie. Appena giunti furono circondati da una turba di affamati ed il pane da essi portato venne a loro strappato letteralmente dalle mani, sicché essi dovettero patire la fame fino al giorno 30 quando cominciò l’arrivo delle navi”. Quelle navi però vagarono per giorni prima di trovare nuovi punti d’approdo. Le banchine, infatti, erano state spazzate via da tre gigantesche onde di maremoto generate dalle ripercussioni della scossa sul fondale marino. Provenienti da nord-ovest, dopo aver investito Ganzirri e la costa settentrionale di Messina, le onde si erano infilate nell’imbuto dello Stretto e si erano abbattute con inaudita violenza sulla costa occidentale dell’estrema Calabria. Nelle cittadine rivierasche, a iniziare da Palmi e giù fino a Reggio, come ebbe modo di rilevare il corrispondente dell’Hamburger Fremdenblatt, “la marea era penetrata fino ai primi piani e, carica di bottino in vite umane e beni, velocemente, si era poi rifugiata, così come in passato facevano i saraceni, nel bacino del mar Tirreno”. A Cannitello, su 2000 residenti se ne salvarono meno di 40; il villaggio dei pescatori della Chianalea di Scilla fu sbriciolato e spianato dalla marea. Il 90% dei suoi abitanti scomparve tra le onde. Maremoto e incendi fecero la differenza, ma accomunarono nella distruzione Reggio e Messina. Quel poco che lungo la costa reggina aveva resistito al terremoto fu travolto dalle onde. Su tutta l’area dello Stretto la pioggia fredda e battente aggiunse disagio a disagio, inondando di fango le rovine e ostacolando l’opera di ricerca dei superstiti. Le stazioni ferroviarie di Reggio e Villa San Giovanni erano crollate, il piazzale della stazione di Villa era sprofondato di circa due metri e il maremoto aveva travolto i treni in transito riducendoli ad ammassi di ferraglia. Le onde avevano scagliato barche da pesca e battelli in piena campagna, ben oltre i terrapieni della linea ferroviaria tirrenica. Il ponte in ferro di Pellaro era stato sollevato di peso e depositato sul torrente. Per oltre un mese, passeggeri e merci furono costretti a fare la spola tra i treni in arrivo e in partenza sulle due testate della linea. La maggior parte degli edifici pubblici di Reggio era crollata e dell’edilizia privata si erano salvati solo i pochi fabbricati bassi, costruiti nel rispetto delle norme antisismiche varate dopo il terremoto del 1783. Particolarmente gravi per conseguenze ed entità delle vittime, i crolli dell’Ospedale Civile e della Caserma Luigi Mezzacapo. Il crollo del nosocomio, nel quale perirono 260 dei 280 degenti, privò la città del luogo deputato a fornire cure ed assistenza. L’unica forza militare presente in città, la sola che avrebbe potuto dare un aiuto immediato, era stata annientata dal crollo della caserma Mezzacapo. Dei 600 soldati di leva del 22° Reggimento acquartierati nella caserma, ben 500 erano morti sotto le macerie insieme alla maggior parte dei loro ufficiali. Fu solo la mattina dell’ultimo dell’anno, con l’arrivo in città dei pompieri di Roma, dei volontari della Croce Rossa di Napoli e delle squadre di soccorso partite dalla Toscana, dalla Lombardia e dall’Emilia, che si organizzarono i primi soccorsi e si eressero le prime tendopoli. L’Ordine dei Cavalieri di Malta provvide a organizzare treni-ospedale adibiti al trasferimento dei feriti in altre città. Sulla costa reggina, intanto, operava già la squadra navale inglese i cui ospedali da campo stridevano per lindore e organizzazione nel marasma generale. Pur tra le inevitabili polemiche, con la proclamazione della legge marziale e l’affidamento all’Esercito delle funzioni di coordinamento dei soccorsi, fu poi avviata la fase di normalizzazione. Ma la città, distrutta, ci avrebbe messo trent'anni per risollevarsi.    

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