Serra: perché non istituire un parco letterario?

Scriveva Stanislao Nievo: “I Parchi Letterari assumono il ruolo di tutela letteraria di luoghi resi immortali da versi e descrizioni celebri che rischiano di essere cancellati e che si traducono nella scelta di itinerari, tracciati attraverso territori segnati dalla presenza fisica o interpretativa di scrittori. Un singolare percorso che fa rivivere al visitatore le suggestioni e le emozioni che lo scrittore ha vissuto e che vi ha impresso nelle sue opere.” Orbene Serra San Bruno ha avuto il privilegio di avere tra i suoi figli due grandi della letteratura: Sharo Gambino e Mastro Bruno Pelaggi, quest’ultimo addirittura recente voce della Treccani. Il Gambino, nei suoi saggi e nelle poesie dette voce alla gente delle Serre con descrizioni particolareggiate dei luoghi; il Pelaggi è stato l’anima rivoluzionaria dell’amara realtà postunitaria. Vien da sé che Serra merita l’istituzione di un parco letterario intitolato ai nostri Gambino e Pelaggi  non solo per custodire e divulgare le loro opere ma per salvaguardare  il territorio serrese attraverso la letteratura. Ciò permette di avvicinare il visitatore e il lettore all'ambiente descritto dai nostri autori e coinvolgerlo nella tutela dell’ambiente. Insomma un Parco letterario per conoscere e far conoscere l’evoluzione, o involuzione se volete, delle comunità, come Serra San Bruno, Mongiana, Fabrizia, Nardodipace, Brognaturo e le altre, attraverso le opere letterarie ed artistiche. Gambino e Pelaggi offrono un diverso codice di interpretazione dello spazio scelto, mille anni orsono, da san Bruno e danno un nuovo significato al territorio tra paesaggio, patrimonio culturale e attività economiche. È auspicabile che Serra San Bruno possa essere sede di un Parco Letterario “Sharo Gambino-Mastro Bruno Pelaggi”, e questo vuole essere un benevolo assist alla nuova Amministrazione comunale e alle altre associazioni presenti e operanti. Tra gli obiettivi realizzabili: una biblioteca specializzata sulla letteratura calabrese che  possa rappresentare il luogo della conoscenza; un museo ed un centro studi  che conservi e valorizzi le opere degli autori serresi; la rinascita della casa natale del Pelaggi; un percorso turistico attraverso i luoghi anche di altri autori e poeti dell’intero comprensorio, fatti conoscere da critici letterari ed esperti, per valorizzare pienamente le bellezze paesaggistiche e i tantissimi beni monumentali. Insomma ripensare il territorio alla luce delle tradizioni e della poesia.

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Serra, elezioni comunali: quando al partito di "lu susu" si contrapponeva quello " di lu vasciu"

Alle prese con la campagna elettorale per il rinnovo degli organi amministrativi, Serra vive la classica situazione in cui le luci della ribalta vengono concentrate su facce vecchie e nuove. Da una parte, i neofiti che si affacciano per la prima volta alla finestra principale dalle quale si chiede il consenso; dall’altra rugosi volti che, seguendo un collaudato canovaccio, riaffiorano dopo il lustro trascorso sott’acqua. In ogni caso, vecchi e nuovi aspiranti battono palmo palmo ogni angolo del paese per chiedere, in taluni casi piatire, una preferenza. La pratica è tutt’altro che nuova se già, a fine Ottocento, Mastro Bruno Pelaggi verseggiava: “Pue quand’è l’ura di li votazioni,/ t’abbrazzanu e ti stringianu li mani,/ e si cu ttia non haannu relazioni,/ mentanu mezzi cu atri cristiani:/ vannu da chidhi chi ‘nci hai brigazziuoni,/ a cu’ dici «si!»: sinnò pierdi lu pani”. Non è l’unica analogia con quanto avviene oggi, tuttavia sarebbe fallace pensare che nulla sia cambiato. Se oggi si assiste ad una proliferazione di candidati, a cavallo tra Otto e Novecento, la situazione era diametralmente opposta, non solo perché l’accesso all’elettorato, sia passivo che attivo, era piuttosto limitato, ma anche per la composizione delle liste che si contendevano la guida dell’amministrazione cittadina. In assenza di partiti politici strutturati, l’aggregazione avveniva su base territoriale. Come ricorda Brunello De Stefano Manno nella “Fabbrica di cellulosa”, le liste in lizza erano due. Da una parte “il partito di lu suso”, dall’altra quello “di lu vasciu”, espressioni rispettivamente dei rioni Spinetto e Terravecchia. Le due fazioni davano luogo a “dispute […] complicate da una netta contrapposizione territoriale che vedeva il paese spaccato in due dal corso del fiume Ancinale”. Così, “le liste elettorali, esclusivamente civiche, riproducevano la situazione territoriale. Il fiume era il confine fisico e, spesso e volentieri, sul ponte dell’Ancinale si veniva alle mani”. Un altro elemento che contribuiva a creare una cesura netta tra le due fazioni, era l’appartenenza alle congreghe, “soprattutto tra quella dell’Addolorata di Terrevecchia e quella dell’Assunta di Spinetto”. La contesa elettorale si concludeva, il più delle volte, con la vittoria del partito di “lu suso”, “mentre l’opposizione, tra cui militava Mastro Bruno, s’identificava nei sostenitori del partito di Sotto”. A ben guardare, però, le analogie superano forse le differenze, dal momento che la “piccola” Serra vantava anche allora un proprio rappresentante alla Camera dei Deputati. Bruno Chimirri, era e rimane la personalità politica più in vista che la cittadina bruniana abbia mai avuto. Esponente della Destra storica, titolare di dicasteri importanti in numerosi governi, a lui Mastro Bruno ha dedicato alcuni versi nei quali ricordando: “E’ pi lu mundu è truoppu mintugatu/ di tutti li putenti di la terra…/”, definisce i suoi oppositori locali “suriciedhi di mulinu”. Non manca, infine, l’ammonimento con il quale, il poeta, rivolgendosi ai suoi concittadini, dice: “Facitivilu miégghiu pi d’amicu, c’avimu aiuti, riparu e cunzigghju”. Il suggerimento, che denota la calabra propensione ad assecondare il potere, rappresenta, forse, la più grande analogia tra le campagne elettorali di ieri e quelle di oggi.

 

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Serra, anno 1894: arriva l'illuminazione pubblica ed il paese resta al buio

“O chi luci, o chi luci, o chi alligrizza/ ca lu scuru lu tàgghj culla zappa/ Cu s’aspittava mai ‘sta cuntintizza: di notti mu ‘nc’è lu suli ’ntra sta chiazza”. Inizia così una delle tante poesie in cui Mastro Bruno Pelaggi indossa i panni del fustigatore per colpire l’umana insipienza. Nei versi di “O chi luci, o chi luci, o chi alligrizza” è distillata un piccola pagina di storia serrese. Una storia che dovrebbe rappresentare un costante memento per quanti hanno la responsabilità di maneggiare il denaro pubblico. L’episodio cui fa riferimento la poesia è realmente accaduto ed ha visto, suo malgrado, Mastro Bruno protagonista dell’intera vicenda. Correva l’anno 1893, quando, approfittando della presenza di Robert Holtmann, un ingegnere svizzero giunto a Serra nel febbraio del 1892 per collaudare una turbina elettrica nello stabilimento Fabricotti di Santa Maria, l’amministrazione comunale pensò di dotare il centro abitato della pubblica illuminazione. Come riportato da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nella “Fabbrica di Cellulosa”, “in data 22 aprile 1893, il Comune aveva avuto cura di stipulare regolare contratto con il medesimo Holtmann quale rappresentante della Zelleweger & Cremberg, ditta fabbricante apparecchi elettrici con sede a Uster nel Cantone di Zurigo. L’ingegnere s’impegna a consegnare l’impianto entro sei mesi dalla stipula ricavando la forza motrice dall’acquedotto della segheria comunale Archiforo, ritenuto da lui stesso sufficiente ad animare 80 lampade per l’illuminazione pubblica e 70 da concedere ai privati”. L’opera, che avrebbe dovuto rappresentare l’arrivo della modernità a Serra, venne aspramente contrastata da Mastro Bruno che, nella sua funzione di consigliere comunale, bersagliò con l’ironia una scelta che si rivelerà fallimentare. Gli strali per la spesa, ritenuta superflua e senza senso, indussero il poeta a scrivere versi particolarmente caustici: “La Serra avia bisuognu di li scarpi/ e pue si l’accattava la scurzetta”. In un paese in cui mancavano i servizi primari, la saggezza popolare del poeta scalpellino non poteva tollerare lo spreco di “vintidumila liri” per legare, con riferimento ai cavi elettrici, “di cuordi lu paisi”. In realtà, il costo sostenuto “si attestò a lire 18.500, pagabili in 5 rate uguali di cui la prima all’atto della stipula, la seconda alla consegna dell’impianto e le rimanenti a scadenza annuale”. Ma, al di là dei costi, il primo impianto d’illuminazione pubblica serrese era destinato a riservare non poche delusioni ai neofiti del progresso. Non solo, rinunciando alla proverbiale puntualità svizzera, l’ingegner Holtmann consegnerà l’impianto con sei mesi di ritardo rispetto al termine stabilito, ma il collaudo si rivelerà un autentico fiasco. Quanto tutto sembrava ormai pronto, alle 20,30 del 13 maggio 1894, le autorità avevano preso posto sul palco approntato nella centralissima piazza San Giovanni. La cerimonia inaugurale era stata allestita in pompa magna, con la partecipazione del clero e “gran concorso di pubblico”. Com’è facilmente immaginabile, la curiosità era tanta e ad ammirare il prodigio della tecnica che stava per rischiare le notti dei serresi, era arrivato un numeroso “pubblico” da tutto il circondario. Nessuno voleva perdersi la solennità del momento. Conclusi i discorsi di prammatica,  si diede mandato all’addetto di spegnere i fanali a petrolio. Con l’intero paese al buio, l’atmosfera d’attesa doveva essere degna di una pellicola hollywoodiana. Come nei film di cui si è letta la trama, tutti stavano con il fiato sospeso pur pensando di conoscere il finale, ovviamente a lieto fine. Ma come osano fare solo i maestri della regia, il fato riservò un finale a sorpresa. Quando i rintocchi della campana della chiesa dell’Assunta diedero il segnale di accendere le luci, non successe assolutamente nulla. Vani si rivelarono i tentativi compiuti da Holtmann che “rintanato in una cabina del lungo fiume”, cercava di febbrilmente di azionare le leve di comando. Nessuna lampadina s’illuminò e ad “accendersi fu solo l’ironia, specie quella caustica degli oppositori”. I fautori dell’iniziativa sapevano che la solennità del momento imponeva di correre ai ripari. Per cercare di salvare il salvabile, uno degli assistenti del tecnico svizzero venne mandato all’acquedotto Archiforo. “ Nei giorni precedenti era piovuto a dirotto, l’acqua scorreva veloce nel canale, la turbina girava a tutto spiano, ma i contatti disperdevano la carica nell’acqua”. Riparato il guasto, Holtmann provò nuovamente ad immettere l’energia nella rete. Finalmente qualcosa sembrò succedere. Le lampadine s’illuminarono, ma con grande delusione di chi aveva spalleggiato l’iniziativa, la luce si rivelò “fioca e tremolante, non migliore della precedente erogata dai più economici fanali a petrolio”. Come se non bastasse, l’impianto funzionò solo tre sere. A quel punto, iniziarono a sbizzarrirsi le ipotesi. Come accade anche oggi, a dare le spiegazioni più dettagliate erano le persone che ne sapevano di meno. Uno di questi soloni, giunse addirittura a sostenere che “l’ingegnere aveva sbagliato la scelta del filo. Quello messo in opera dallo svizzero, non essendo vuoto, era inadatto al passaggio della corrente elettrica!”. Rimasti “allu scuru”, i cittadini dovettero lentamente smaltire la delusione, un’attività cui i serresi, evidentemente, sono sempre stati abituati dalla politica delle promesse che non ha mai partorito fatti. Forse, per invertire il corso degli eventi sarebbe stato necessario seguire il consiglio di Mastro Bruno: “Sti cunzigghjèri stupidi e minchiuni/ vurianu currijati cuomu cani/ cu frischi, cu lignati, cu bastuni, cu pitrati, ma gruossi mazzacani”. Un consiglio caduto nel vuoto, perché a parlare di certa cose “a ‘stu paisi si perda lu tiempu”.

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Da Cicerone ai poeti dialettali calabresi, quando la campagna elettorale non si faceva in Tv

Si deve, necessariamente partire da molto lontano. Già Quinto Cicerone, nel dare consigli al fratello più famoso, Marco Tullio, impegnato nella campagna elettorale a console, compilando quel piccolo breviario, oggi conosciuto come Piccolo manuale per una campagna elettorale e che ogni candidato dei giorni nostri dovrebbe ricordare, scriveva: “ Non ti manca, certo, quell’affabilità che si addice ad un uomo buono e gentile, ma ti necessita l’arte di adulare che, se negli altri momenti della vita è un vizio e una vergogna, durante la campagna elettorale è indispensabile. L’adulazione è infatti un male se rende qualcuno peggiore, ma non è poi da vituperare tanto, se lo rende più amico; essa è senza dubbio necessaria al candidato, che deve mutare l’espressione del volto e la maniera di esprimersi adattandoli al modo di pensare e ai desideri che incontra.” Sono considerazioni banali? Beh, oggi forse lo sono, “dopo che - scriveva Carlo Carlino- i maghi della comunicazione hanno messo in atto strategie persuasive e la spettacolarizzazione della politica ha ‘eclissato il cittadino’ sempre più succube di formule e di promesse,…di programmi ridotti a semplici ‘messaggi’”. Certamente Berlusconi ne ha fatto di scuola. Oggi i sondaggi e le quasi mondane convention la fanno da padrone. E le campagne elettorali degli anni passati, del secolo scorso, i comizi tra il serio e il faceto nelle piazze dei piccoli paesi o dai balconi? Si dirà: ben piccola cosa a fronte dell’immediatezza comunicativa e mediatica di oggi. Ma davvero? E vuoi mettere il sale e pepe di certi comizianti dei nostri paesi? E le satire tra un bar e un’osteria? E l’arguzia del contadino? E le poesie in vernacolo, quelle elettorali? Leggiamone qualcuna, giusto, non per tornare indietro e come si potrebbe del resto, ma per vedere chi eravamo, come eravamo, cosa volevamo. Mi piace iniziare questo simpatico, e struggente al contempo, itinerario dal periodo postunitario con una delle voci più significative della poesia calabrese, quella di Mastro Bruno Pelaggi di Serra San Bruno, oggi voce Treccani, che già alla fine dell’800 leggete cosa diceva, rivolgendosi ad Umberto I.”…Sempi lavuru e pani/circau lu calabrisi/ ma tu sciali di risi/ e cugghiuniji!...Menta carchi lavuru/ mu nd’abuscamu pani,/cà la morti di fami/è troppu cruda!.../ Taliani cu la cuda/ ndi carculasti a nui,/ ma tu si duru cchiui/di nu macignu!/ Mo chi cazzu mi mpignu/mu pagu la fundaria,/si la casa mia para/  nu spitali/ ‘Nu liettu e ‘nu rinali/ ‘na seggia e ‘nu vrascieri:/ quando vena l’ascieri/ pigghia cazzi!/…Basta simu Taliani!/ gridammo lu Sessanta/ e mò avogghia mu canta/ la cicala!/…Non spirari cchiù nenti/ Calabria sbinturata:/…jio mo’ parru cu’ bui,/ Ministri e deputati,/ chi cazzu mi priedicati/ pro Calabria?”. Non mi pare ci sia bisogno di commento, cari lettori ed elettori, solo ricordarvi che il tempo intercorso tra il Pelaggi e noi è molto più di un secolo e pur sembra cosa di questi giorni. Saltiamo e si arriva al 1948, l’elezione del vero scontro ideologico. Cosa scriveva Pasquale Creazzo da Cinquefrondi (RC) in Lu gnuri e lu culonu ? Leggiamo insieme questo scambio di battute tra il contadino e il signore: “ Vorria  pe mu votu/ Pe cuui sempi votai./ Ma mò votu pe’ mmia/ Mu nesciu  di sti guai!/ Sì, pecchì la cruci/ Vui assai la stati usando/ Poi vui la panza chijna/ Ed eu lu campusantu!/ Chista non è giustizia/ Chi ‘bbui ‘ndi promettiti/ Lu populu lamija/ E ‘bbui mu v’arricchiti./ Non ‘mboli mancu Ddeu mu votu pelu gnuri/ Aiutati ca t’aiutu/ Mi dici lu Signori!”. Insomma perché abusare della Croce (DC), quando neanche il buon Dio vorrebbe si votasse per il prepotente ed arrogante già riccone! Ma c’è, ahimè, ahinoi, anche chi delle elezioni se ne frega proprio. Tanto! E così Giuseppe Morabito, da Reggio Calabria nel secondo ‘900, delle condizioni sociali del tempo con la metafora del topo politico e del suo contrario. Leggiamola ‘U surici puliticu: “ Mi ‘ntrufulu, mi spulicu/ scafali e ccifuneri,/ pì mmia no’ nci su’ trappuli,/ vilenu e suriceri./ Su’ zzocculu pulitici/…chi ffaci ‘a sentinella/ nda stanza ri buttuni./…No rrizzicu ma rrusicu, a fazzu da patroni/…E mali chi mmi vai,/ si stentu m’a cunciliu,/pì mmia sa’ chi mbentaru?/ l’arrestu a domiciliu!”. Capito? Questi i  portaborse e galoppini di ieri e di oggi. E quante le delusioni! Con Nicola Paparo di Scandale, negli anni ’70, ne abbiamo la conferma. Leggiamolo in All’onorevole: “ U t’arruffari si cantu sdignatu/ ppicchì da quandu nterra su’ vinutu/ porte ‘i putenti und’haju ma’ bussat./ Ppi cuntintari a famijieddra mia/ m’era vinuta puru ‘sa gulia/ ma cuomu m’aspittava, già u sapia/ tutt’è finita a ‘na cugluneria”. Ed ancora. L’esito è quello del crotonese Juzzo Pulvirenti che scrive:” Intanto, sul palco imbandierato/incomincia a parlar il nuovo deputato:/ Cittadini e compagni di Crotone/ è grande questa sera l’emozione,/alle vostre facce di deficienti/vedo che siete felici e contenti”. E per concludere, il Paccu e trumma di Bruno Tassone, di Crotone, non vi sembri roba solo di ieri, leggiamolo:” Don Cicciu Arrigu ‘nsemi ad ancun’atu/ và dicennu:”Caputu deputatu”/ du Vaticanu tana sordi a saccu/ e ‘nti quartieri và dunannu u paccu./ “U vutari a ccù i previti si mancia/ vutari i cumunisti cu ti ciancia”,/ ma u populu faciva muru i gumma/ pipava u paccu e vutava trumma”. L’antologia dei poeti elettorali e fustigatori del malcostume di certa politica, non finirebbe qui e però confrontarli con gli slogans e i manifesti che ci bombardano oggi, questi poeti di periferia e talvolta anche improvvisati, erano e sono più passionali e più realistici. E quanta verve! E la semplicità, quasi disarmante, era di sicuro più penetrante di tanta dissimulazione di oggi e di tanta tv.

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La figura di Mastro Bruno Pelaggi inserita nella Collana dell’Enciclopedia Treccani

Il poeta scalpellino Mastro Bruno Pelaggi è stato inserito nella prestigiosa Collana dell’Enciclopedia Treccani. La biografia del serrese che si fece interprete del malessere e dei sentimenti del popolo dei decenni successivi all’Unità d’Italia è, al momento, presente solo nella versione on line, ma fra qualche giorno apparirà anche nella versione cartacea (volume 82 - 2015). Si tratta del riconoscimento della valenza storica di una figura che rappresenta uno dei punti di riferimento culturale per la collettività  calabrese: memorabile è soprattutto il suo modo di descrivere un’epoca contraddistinta da soprusi e ingiustizie con sullo sfondo un personalissimo rapporto con il Divino. Il sacrificio, la sofferenza, il senso di appartenenza alla comunità serrese, nella visione dell’autore, erano considerati elementi essenziali di una quotidianità condizionata da una forte arretratezza economica. L’esigenza del riscatto sociale, avvertita da Mastro Bruno Pelaggi, rimane di straordinaria attualità.

 

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Mastro Bruno Pelaggi e quel suo modo d'intendere la primavera

"A maghju non mutàri saju" recita un noto proverbio serrese, che invita a non cedere alle lusinghe delle prime belle giornate di primavera. Una stagione che, pur tra repentini sbalzi di temperatura e giornate piovose, rimane senz’altro quella che più di tutte desta meraviglia e stupore. Artisti e uomini di lettere di ogni epoca si sono lasciati ispirare da questa stagione, che ci consegna quindi opere di rara bellezza e di sentimenti profondi. Anche un animo severo e pungente quale era Bruno Pelaggi non resta indifferente di fronte allo spettacolo che la natura offre nella stagione del suo risveglio. Poco meno di trenta sono i versi che il poeta scalpellino dedica alla primavera, protagonista di liriche tanto brevi quanto intense ed efficaci. Nella prima lirica Si l’arvuli si vestanu di fhjuri il poeta istituisce addirittura un confronto tra la primavera e la giovinezza: questa fase della vita di ciascun uomo apporta continuamente linfa nuova a ogni generazione, proprio come la primavera rigenera la natura dopo ogni freddo e sterile inverno. Anche questi pochi versi, però, non sono esenti da quella vena polemica di denuncia che contraddistingue il Pelaggi nel panorama della poesia dialettale. Dal rigoglio di frutti e fiori che segna la primavera, l’attenzione del poeta di sposta su quelle donne che, prive di marito, non hanno visto la mancata realizzazione come donne, causata non dalle leggi di natura (equamente distribuite tra gli esseri viventi) ma da quelle umane che, caratterizzate da ingiustizia, povertà e soprusi dei potenti, non mancano di discriminare tutti gli esseri: la vita cu mia fu amara e boia! (v.9). Più celebri sono i versi della lirica Quandu la primavera si risbigghja, nella quale un mastro Bruno pacato e sereno si ferma a riflettere sulla vita dell’uomo. In soli sette versi è condensata la descrizione di un locus  amoenus, segnato da un’esplosione di colori e dolcissimi suoni della natura. In questo locus amoenus, simile a un quadretto bucolico virgiliano, vengono collocate le figure della campagnola e di lu piecuraru: la prima è colta in uno stato di estasi onirica, mentre ‘nzonna appunto chi potrebbe essere il suo futuro marito, mentre il secondo gode della sua libertà in compagnia delle sue pecorelle. L’ultimo verso (v.8) del componimento è però un ritorno alla realtà: il dolore del poeta è racchiuso in questo interrogativo malinconico, che è rivolto alla Vergine Maria. Se l’uomo si lasciasse guidare dalla semplicità tanto disarmante quanto meravigliosa della natura, la vita sarìa mala? Sei versi formano l’ultimo componimento di Pelaggi sulla primavera: Turnata è primavera ‘n’atra vota. Il poeta si ferma a considerare li vecchiariedi alli pusteda (v.3), venuti fuori dalla loro umide e fredde abitazioni per godere del tepore dei raggi di sole. L’inverno serrese è sempre tristi e crudu, ma anche il mese di marzo in quell’anno non deve essere stato di meno se ‘nci vrusciau li matassara, cioè ha costretto la gente a bruciare persino gli arcolai pur di scaldarsi. In questa lirica non vi è spazio per considerazioni tipicamente pelaggiane: il poeta si limita a cogliere ciò che vede all’inizio di una nuova primavera, stagione capace di “cacciare” anche dall’animo di mastro Bruno (come fa con i vecchietti infreddoliti e pigri dopo un lungo inverno) versi di una profondità senza dubbio inesprimibile nello spazio di poche righe.   

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Mastro Bruno Pelaggi e l'Unità d'Italia

Christopher Duggan, ne è pienamente convinto. Il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia è debole ed inconsistente.

Nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi”, lo storico inglese, sostiene che figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi fu l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale.

Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola esistenziale nel paese della Certosa.

Il “poeta – scalpellino” aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta.

Come rilevato da Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori”, esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, concetti e principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale.

Certo, non è possibile parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe.

Piuttosto, ad animare la penna del “poeta – scalpellino”, c’é un naturale “istinto di classe” frutto della consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri umani, gli sfruttatori e, gli sfruttati, cui il poeta serrese sa di appartenere.

In Mastro Bruno, dunque, la Questione Meridionale, come sostenuto giustamente dallo studioso Biagio Pelaia, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma, soprattutto, come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta.

Partendo dalla propria esperienza, Pelaggi  matura riflessioni e considerazioni che saranno alla base della coscienza meridionalistica. Sebbene vi siano otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un solo frammento, costituito da otto quartine, dal titolo “Quand’era giuvinottu”, in cui il poeta serrese tenta di cogliere, a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario.

Quand’era giuvinottu,/ jio mi ricuordu appena/ ca si dicia ca vena/ Cientumasi;/ di sira, ‘ntra li casi,

cu’ certi carvunari,/ pimmu ‘ndi dinnu mali/ dilli Borboni/ Ch’era ‘nu lazzaroni/ ‘n sigrietu si dicia;

c’ognunu non vulìa / mu parra forti, / picchì a sicura morti/ jia ‘ncuntru, o carciratu/e pue cadia malatu/ e si futtia./Tandu non capiscia;/però (mancu li cani!),/cu chist’atri suvrani/si dijuna.

‘N Calabria ormai la luna/Va sempi alla mancanza,/e non c’è cchiù spiranza/ca ‘ndargimu.

C’arriedi sempi jimu,/li mastri e li fatighj;/chissu lu capiscivi/non di mò;/Ca lu Guviernu vò

sulu pimmu ‘ndi spògghja,/ mu ‘ndi leva la vòggjia/  mu stacimu …                                                                                                          

In questo frammento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricorda uno dei tanti episodi della sua gioventù e riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che, verosimilmente, dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, il ribelle. Ciò che emerge fin dai primi versi è la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale, cui, curiosamente, anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Il poeta, dopo aver descritto quest’attività, pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente.

Se durante il periodo borbonica, da un lato, la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire “proletarie” vivono la fame e vengono sommerse da nuove tasse destinate a rimpinguare le casse dell’indebitato Stato piemontese. E’ noto agli storici, infatti, come le maestranze artigianali (meastranza “di la Serra”), che spesso erano rappresentate da veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.

Basta! – Simu ‘Taliani!  / Gridamma lu Sissanta.                                                                                                     (Ad Umberto I, vv. 69-70)

Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri avevano guardato all’unificazione. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune. Ma fu un’illusione, dopo l’Unità, le divergenze, sociali ed economiche, riaffiorarono con maggiore crudezza.

In particolare, la nuova politica fiscale imposta dai piemontesi, obbligò il nuovo Stato e le classi sociali più deboli a farsi carico dei debiti portati in dote dal regno Sabaudo.

Sul popolo calabrese, dunque, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere stata riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi nuovamente. Il Mezzogiorno patì l’abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale.

Cosi Mastro Bruno, scrive al Re per esprimere la disperazione e solitudine dell’uomo meridionale, sfruttato e deriso dai potenti:

Picchì hai mu li nascundi / li gridi calabrisi/ Non pagamu li spisi/’guali atutti?/ Ma tu ti ‘ndi strafutti/ li deputati cchiùi:/duvi ‘ncappamma nui,/ povar’aggenti!

(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)

Ma non ricevendo alcuna risposta da Umberto I, decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione:

Non vidi, o Patritiernu,/ lu mundu mu sdarrupi/ ché abitatu di lupi/ e piscicani?

 (Lettera al Padreterno, vv 1- 4)

A nui ‘ndi scuorticaru/ li previti, l’avaru/ e lu Guviernu

 (Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)

In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale.

Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se.

Essa è l'interlocutrice cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, in altre parole ciò che un uomo non potrà mai essere.

Quantu’ agghjuttivi amaru/ ‘ntra ‘st’esistenza mia!/ Luna, si non niscia/quant’era mieggju!

 

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Tornano in libreria le poesie dialettali di Mastro Bruno Pelaggi

 

SERRA SAN BRUNO – La voce della ribellione, ma anche la narrazione dei bozzetti di paese, torna a riecheggiare nelle librerie grazie al volume “Mastro Bruno Pelaggi, Poesie” nella versione di Sharo Gambino con introduzione e cura dello storico Tonino Ceravolo, pubblicato dalla Rubbettino in collaborazione con le Distillerie Caffo. Mastro Bruno (Serra San Bruno 15 settembre 1837 - 6 gennaio 1912, alcune volte noto come il “poeta analfabeta” altre, invece, come il “poeta scalpellino”, visse quasi tutta la sua parabola umana a Serra San Bruno, patria anche dell’amico, più volte ministro, Bruno Chimirri. Il poeta serrese faceva uno dei mestieri più duri, appunto lo scalpellino; aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi morali della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta, che osservò con estrema coerenza, senza timore di scontrarsi con l’ordine costituito e con la moralità del tempo. Il volume, scrive lo studioso, «è frutto dell’incontro tra le due maggiori personalità letterarie che il territorio delle Serre calabresi abbia prodotto nel periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine del Novecento. Il mestiere svolto da Pelaggi – chiarisce Ceravolo – insieme con il fatto che sembra dettasse abitualmente i propri componimenti poetici (“li stuori”) alla figlia Maria Stella, contribuirà in modo determinante a coniare il luogo comune di “poeta-analfabeta”, altre volte declinato sotto la forma più descrittiva di “poeta-scalpellino”, che si era impadronito delle tecniche di versificazione grazie ad una sorta di “sapienza” istintiva, di intuizione poetica naturale, indipendente da qualsivoglia formulazione culturale». Ma è lo stesso Gambino, nella prefazione alla sua raccolta, a tracciare l’opera del Pelaggi: «La tirannide, la prepotenza esercitata dal potente sul povero egli la colpì additandola al disprezzo degli uomini di buona volontà; sbugiardò l’ingannevole parolaio elettorale tendente ad ingannare il popolo costretto all’ignoranza; e denunciò l’ipocrisia di una religione solo apparentemente praticata». Le poesie di Mastro Bruno sono figlie di un “istinto di classe” che nasce dalla consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri, gli sfruttatori e gli sfruttati, e dalla percezione del poeta serrese di appartenere a quest’ultima. Nelle poesie di Mastro Bruno la Questione meridionale si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma soprattutto come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta che lo conduce, partendo dalla propria esperienza, a fare delle considerazioni e delle riflessioni più generali ed universali che saranno poi alla base della coscienza meridionalistica.

 

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