Per contrastare l'acquisto di pellicce è necessaria una vera campagna di sensibilizzazione

L’Italia, Paese di grandi stilisti e precursori dello stile nell’abbigliamento, non si sottrae alla moda, la "cultura", o a voler prendere una posizione. L’esibizionismo di alcune persone, soprattutto donne, si manifesta nell’indossare indumenti di provenienza animale, le classiche pellicce che in questo periodo invadono le boutique più prestigiose attirando ed attraendo amanti di tali capi. La provenienza del pelo animale, più volte illustrata in maniera forse troppo sommaria e partigiana dalle campagne di animalisti, non produce una sensibilizzazione di fronte agli occhi di quanti si accingono a tali – costosissimi - acquisti. E’ una considerazione obbligata, non riuscendo a trovare una ulteriore giustificazione plausibile nell’epoca della grande emancipazione della donna, della parità dei sessi, dei nuovi diritti e soprattutto della presunzione, prettamente femminista – più o meno condivisibile- di una profondità d’animo maggiore. La cosiddetta donna occidentalizzata, emancipata, non è più giustificata nel voler apparire o nel dover ritagliare la sua piccola scena nella società borghese e patriarcale, ed è qui che nasce una grandissima contraddizione sociologica, nonché un punto  interrogativo su cosa possa significare indossare, in pratica, il pelo di un altro essere vivente, cosciente della provenienza dolorosa e crudele. È noto che gli animali  da pelliccia vivono o, forse sarebbe più corretto scrivere, sopravvivono, in piccole gabbie, in ambienti ostili, privati di ogni minimo diritto, nutriti a stento e lasciati al freddo proprio per evitare che il loro pelo si possa danneggiare a causa del calore. La netta pratica della separazione consiste nello scuoiare l’animale ancora vivo e senza l’ausilio di nessun anestetizzante, dopodichè, una volta privato del suo manto, viene lasciato agonizzare fino al sopraggiungimento della morte. Ogni anno visoni, ermellini, castori, volpi e molti altri subiscono questa disumana pratica e la vendita non sembra subire crisi. I tanti cani procione impiegati a tale scopo non hanno evidentemente la medesima natura da preservare o il medesimo valore, non sono nati chiguagua con tanto di pedigree. E del resto, un bambino della Sierra Leone, al quale vengono amputate le braccia nella pratica dell’estrazione dei diamanti di zona da portare con orgoglio al dito, magari da volerne fare un simbolo d’amore, non ha forse lo stesso valore di uno dei nostri bambini? Ma questa è un’altra storia. Ancora una volta una forte, sentita e veritiera campagna di informazione potrebbe decretare la svolta, veicolando i nostri acquisti verso beni e servizi che si spera possano non finanziare tali atti criminali, anche se, per certi aspetti, legalizzati, e promuovere attraverso un commercio equo solidale e consapevole un’emancipazione al di sopra della logica dell’apparenza, per un futuro animalista e ambientalista che avrà come grande beneficiario l’uomo.

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