Il bar Bosco e il suo “Genius loci”. L’ultracentenaria storia del più antico caffè serrese

Ci sono luoghi fantastici la cui vista suscita sempre un sussulto dell’anima. Sono quei posti cui gli antichi Romani associavano la presenza manifesta di un “Genius loci”. Se è vero quanto scriveva  Servio Mario Onorato, ovvero che "nullus locus sine Genio" (nessun luogo è senza un "Genio"), è altrettanto vero che è possibile cogliere il “Genius loci” soprattutto in presenza di un bel panorama, di un paesaggio singolare o di un posto in cui si soggiorna piacevolmente. In tempi recenti, l’architettura ha riscoperto il “Genius loci”, identificandolo con il tratto distintivo di un luogo che non dovrebbe mai essere alterato o distrutto.

Tra le tante località calabresi dove storia e natura si sono intrecciate per regalare arte e scorci mozzafiato, spicca Serra San Bruno. Nella cittadina bruniana è, infatti, possibile imbattersi nei tanti “Genii” che popolano le chiese, la Certosa, Santa Maria del Bosco o i sentieri che si dipanano all’ombra dei monumentali abeti bianchi.

A volte, però, il “Genius”, è schivo, riservato, quasi ritroso. In tal caso, si manifesta solo a chi inconsapevolmente lo cerca, il più delle volte senza neppure conoscerne l’esistenza. E’ quello che molto probabilmente accade a quei visitatori che, intenti a solcare il selciato del centro storico, si fanno irretire da un luogo singolare che sorge lungo corso Umberto I: il bar Bosco. Chi attraversa la soglia del locale, gestito con gentilezza d’altri tempi dall’ingegnere Pasquale Degni, viene rapito dall’atmosfera che nulla ha a che fare con un semplice bar. Al Bosco, infatti, la definizione di bar sta strettissima. Si tratta, piuttosto, di un caffè, ma non di un caffè qualsiasi, piuttosto uno di quei caffè storici nei quali spicca una tempra d’antan. Una tempra forgiata dal tempo, poiché “L’Andra Boschi”, come veniva familiarmente chiamato dai serresi di una volta, è uno dei locali più longevi dell’intera Calabria. Le sue origini risalgono, infatti, al 1890 quando a Serra San Bruno si stabilirono alcune famiglie amalfitane. Sono gli anni in cui sulla tratta Napoli - Amalfi – Pizzo si muovono bastimenti che fanno approdare in Calabria non solo merci, ma anche uomini dotati di uno straordinario fiuto per gli affari. Molti s’installano lungo la costa, altri, i più temerari, s’incamminano verso il cuore della regione e arrivano a Serra San Bruno. Tra loro, figura anche un intraprendente giovanotto, Andrea Bosco. Giunto in un paese che sembra fatto apposta per esaltare il suo cognome, decide di creare qualcosa che a quelle latitudini nessuno aveva mai visto prima: un caffè. Uno di quei locali nati tra Sei e Settecento come luogo di discussione della borghesia tenuta alla larga dai salotti dell’aristocrazia e non incline a frequentare le osterie o le birrerie popolari. Il nostro, vuole fare le cose in grande e si propone di riprodurre a Serra uno di quei locali che i turisti, soprattutto inglesi, amano frequentare a Napoli e in Costiera. Per rendere il progetto all’altezza dei tempi, decide di spedire a Napoli il figlio Giuseppe - nato dal matrimonio con la serrese Giuseppina Zaffino - al quale viene affidato il compito di apprendere l’arte della pasticceria nell’allora prestigioso laboratorio Caflisc di via Toledo. Arrivato nel capoluogo partenopeo, il rampollo Bosco studia con zelo e manda istruzioni e ricette manoscritte alle quattro sorelle - Teresa, Elvira, Mafalda e Gaetana - rimaste a Serra. Il progetto di Andrea riscontra un sorprendente successo. Complice la vicinanza della fermata dell’autobus, il caffè Bosco richiama sempre nuovi clienti, attratti sia dalla pasticceria napoletana, che dal Marsala e dal Vermut, il cui consumo era tale da giustificare la mescita direttamente dalle botti. Con la Grande guerra, però, le cose cambiano. Giuseppe, infatti, viene richiamato alle armi e perde le gambe in seguito alle ferite riportate in combattimento.

Le ragazze della famiglia Bosco sono, quindi, destinate ad assumere un ruolo sempre più attivo nella gestione del locale. Come solo le donne sanno fare, le quattro sorelle si gettano a capo fitto nell’impresa e nel volgere di pochi anni i loro dolci primeggeranno nelle più importanti manifestazioni di categoria. Nel 1926, infatti, con il torrone gelato si aggiudicano il Diploma di Gran Premio e la Medaglia d’oro all’esposizione campionaria di Roma. A distanza di qualche mese, un altro importante riconoscimento arriva dalla Fiera campionaria internazionale di Milano. Il caffè Bosco diventa un punto di riferimento per l’intero circondario. In anni in cui la pasticceria non era alla portata di tutte le tasche, i dolci si apprezzavano soprattutto durante le ricorrenze. Così, in occasione delle feste di fidanzamento entravano in funzione i cliché in marmo con i quali veniva data forma alle immagini votive fatte di biscotto o ‘Nzudu. Quest’ultimo – destinato a diventare uno dei dolci tipici serresi – nasce nel laboratorio delle sorelle Bosco che, con grande fantasia, rielaborano la ricetta dei Rococò napoletani. Tra gli altri prodotti tipici, richiesti soprattutto in occasione dei matrimoni - all’epoca rigorosamente festeggiati tra le mura domestiche - i biscottini senza uovo, i Giambirlietti e i Raffiuli. Come ama ricordare l’ingegnere Degni – nipote di Andrea e figlio di Mafalda - “all’epoca c’era lo spirito di fare le cose bene e la ricetta prevedeva che un chilo di Raffiuli fosse composto rigorosamente da 51 dischetti di Pan di Spagna, ognuno dei quali adagiato su una griglia per far gocciolare la glassa di zucchero in eccesso con la quale era ricoperto”. La tradizione della pasticceria napoletana si faceva sentire soprattutto nel periodo Pasquale, quando venerdì Santo andavano in forno le pastiere che, come amava ripetere Gaetana Bosco, “erano così buone da non arrivare mai in vetrina”. Ovviamente, la pasticceria Bosco non confezionava solo prodotti da forno - peraltro venduti anche nelle fiere di paese - ma anche gelati e granite per i quali era necessario ricorrere al ghiaccio delle “niviere”, ovvero le enormi buche scavate nel bosco per stipare la neve caduta durante l’inverno. Ogni bar aveva la sua “nivera”, la “nostra – racconta l’ingegnere Degni – era a San Rocco e veniva usata a partire da Pentecoste”. In occasione delle festività maggiormente avvertite dai serresi, ovvero Pentecoste, Ferragosto e Addolorata, il consumo di gelati e granite era tale da dover ricorrere ai muli per trasportare i blocchi di ghiaccio indispensabili a refrigerare gli ingredienti necessari alla composizione delle ricette. I clienti del caffè Bosco potevano, quindi, ristorarsi nello straordinario giardino, ancora oggi, ombreggiato da una secolare vite, con i gelati prodotti in tre soli gusti: limone, crema e torrone. In occasione di Ferragosto e dell’Addolorata, gli avventori potevano gustare anche il “Pezzo duro”, un particolare gelato modellato in un stampo tuttora conservato nel laboratorio del locale.

La granita invece, era prodotta rigorosamente con limoni spremuti a mano uno per volta. Nel corso degli anni, il caffè Bosco, subirà le altalenanti vicende che il destino riserva alle cose terrene. Nel 1935, ad esempio, viene devastato dall’alluvione che colpisce Serra. A quella terribile tragedia scamparono solo alcune bottiglie di liquore – tuttora in mostra nel locale - sfuggite alla furia delle acque, perché riposte sugli scaffali più alti. Un altro duro colpo arriverà nel 1956, con la morte di Mafalda. La pasticceria Bosco continuerà a sfornare leccornie fino alla morte di Elvira, avvenuta nel  1973. Di quella tradizione, lunga oltre un secolo, oggi rimangono i buonissimi ‘Nzudi preparati dalla signora Elvira – moglie dell’ingegnere Degni - e le fantastiche granite da gustare, come in passato, nel magnifico giardino nel quale continua ad aggirarsi un ostinato e volitivo “Genius loci”, capace di perpetuare se stesso incurante delle scorribande del tempo.

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