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E' nell'abbraccio della sofferenza la risposta all'orrore dell'indifferenza sociale

Bruciano sulla pelle: dardi insanguinati scagliati con la forza derivante dall'ignoranza di elementi basilari della grammatica comunicativa ed umana. Le parole, queste sconosciute, suonano alle nostre orecchie svuotate del peso specifico direttamente connesso al loro significato. Nel caos disordinato di società spappolate, le pronunciamo con un misto di noncuranza ed egoismo ottuso. Spogliati del coraggio che aiuta ad affrontare e saltare a piè pari gli ostacoli riservati dalla vita a ciascuno di noi, imbocchiamo con stupida miopia la via della codardia. Lungo quel sentiero, più semplice da attraversare perché libero dalle mine del confronto, non è fondamentale avere coraggio, non è richiesto camminare con la schiena dritta, tutt'altro. E' molto più proficuo piegarsi, assecondare la flessibilità inginocchiandosi davanti al totem del proprio finto benessere. Per sopravvivere, in fondo, è sufficiente la simulazione di una soddisfazione, il surrogato della felicità, da bere tutto d'un fiato fino ad ubriacarsi di aceto spacciato per vino buono dalla diabolica bottega del relativismo. Sprofondati nel profondo sonno dell'intelligenza emotiva, l'impegno quotidiano è ridotto alla perpetuazione della coltivazione di illusioni che germogliano grazie al web. Il comodo guanciale su cui poggiare il volto deformato dal cinismo e dalla bulimia del piacere contraffatto è realizzato con la piuma della colpevolizzazione dei giovani, delle generazioni che si affacciano all'esistenza mentre i loro occhi non scorgono null'altro che il buio dell'indifferenza sociale. Distratti dall'esaltazione delle magnifiche sorti e progressive della civiltà internettiana, non ci accorgiamo delle ferite inferte dalla lama del coltello affilata con il senso di estraneità rispetto alle angustie del vicino di banco, di casa, di scrivania, di vita. Una distanza impossibile da colmare perché invisibile allo sguardo spento di automi che hanno perso l'orientamento e si aggirano come spettri nel freddo grattacielo delle proprie miserabili ambizioni. Saltellando da un abisso  di vanagloria all'altro, siamo rimasti sospesi dentro la bolla dell'annullamento della separazione fisica, effetto diretto ed anch'esso deformante della pervasività dei social network, sottraendoci all'ascolto della realtà più intima, quella vera e verificata secondo l'unica unità di misura valida: il legame consolidato nel tempo e nella condivisione. Ogni mattina ciascuno di noi si alza e prende posto in platea: sugli schermi di pc e smartphone scorrono in continuazione le scene della quotidianità di (im)perfetti sconosciuti. Un film  che si snoda lungo la trama dell'irrealtà. Uno spettacolo messo su con poche risorse ed alternato ad un altro genere di show: quello drammaticamente concreto delle tragedie, individuali e collettive, che partono dall'alto con la violenza di meteoriti, ma arrivano a destinazione depotenziate dall'infuso anestetizzante della commistione con l'ultima acrobazia di un gattino e con le ultimissime novità su Pokemon Go. Un tarantolato saliscendi che induce a dare credito alle nostre stesse parole per un arco temporale non superiore all'istante in cui le pronunciamo. Eternamente connessi, subiamo gli effetti perversi della disconnessione con la gerarchia dei valori di cui abbiamo ridisegnato la mappa mettendo al centro un avaro egocentrismo. E' così che le lancette della bussola vanno in tilt e, preda di una tempestosa confusione, fuggiamo nella caverna della rassicurante apatia. Nascosti lì dentro possiamo respirare l'aria ovattata della distanza siderale dal prossimo e liberarci di quel fastidioso senso di umanità che rischierebbe di farci "condiVIVERE" le sue fatiche. Sarà troppo tardi quando si farà spazio nelle nostre coscienze la consapevolezza che nemmeno questo è il punto più basso della bestialità. Quello che ci attende è talmente oscuro da far paura anche a noi, a noi che, prima di continuare a giocare a Candy Crush, abbiamo appena letto le parole scritte in un messaggio da uno dei ragazzi coinvolti nel suicidio della quattordicenne Carolina Picchio (la ragazzina, umiliata da cyberbulli, si tolse la vita nella notte nella notte a cavallo tra il 3 ed il 4 gennaio di tre anni fa): "Hai sentito che Carolina s'è ammazzata? Sì, ho sentito. Quasi quasi vado all'obitorio a vedere per l'ultima volta quella faccia di m..". Ma non sarà l'ultima volta che l'orrore della porta accanto farà breccia nel muro delle nostre meschinità, perché nulla ci impressiona, niente ci atterrisce. La speranza, l'unica, ha i volti di quei ragazzi e di quelle ragazze, di quegli uomini e di quelle donne che, con istinto spontaneo, scagliano la freccia del loro generoso entusiasmo in direzione della sofferenza, ricca di dignità e povera di retorica. L'esercito dell'Amore ha truppe ovunque, anche accanto a noi: per rendersene conto basta alzare gli occhi bassi che fissano le meschine miserie del proprio Io. Sollevando lo sguardo, sarà facile accorgersi della presenza di coloro che, in silenzio, producono un rumore assordante con le loro azioni, il solo parametro che conta. Essere travolti dalla gioia che tracima da ogni sillaba pronunciata dai volontari dell'AVAL di Serra San Bruno pronti a partire per l'annuale pellegrinaggio a Lourdes è una testimonianza esemplare. In troppi blaterano di "pace nel mondo" e un attimo dopo esibiscono la bava alla bocca nella sfida all'O.K. Corral per un parcheggio sotto casa. Altri, ed i volontari dell'AVAL sono fra questi, preferiscono l'esempio: esseri umani, non eroi, che "abbracciano" il dolore con generoso fervore. Farsi contagiare dalla loro concreta dimostrazione di fratellanza: è questa la via, felicemente impegnativa, da seguire per orientarsi mentre tutto intorno il mondo è ostaggio del torpore dei sentimenti. 

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