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Disgregazioni e silenzi: ecco perché in Calabria è tutto più difficile

Sinergie, reti di relazioni, condivisioni di progetti, visioni collettive a lungo termine, competenze specialistiche arricchite dal confronto e dalle esperienze in altre realtà. Sono questi gli ingredienti essenziali per chi, nell’epoca del mercato globalizzato, vuole ritagliarsi uno spazio inducendo i potenziali acquirenti ad interessarsi  al proprio prodotto, sia esso una merce, un pacchetto turistico, un tipo di offerta socio-culturale. Il “savoir faire”, l’idea geniale, il “fare squadra” sono diventati più  importanti di quelle risorse naturali che, fino a qualche decennio addietro, costituivano la “discriminante” fra sviluppo e arretratezza. Si tratta di qualità che alle nostre latitudini sembrano svanire a causa del proliferare dell’individualismo, talvolta esasperato, dell’invidia sociale, del pensiero secondo cui la ricchezza sia il frutto di un gioco a somma zero tale per cui “se hai tu, non posso avere io”. L’obiettivo diventa quello di togliere, non quello di moltiplicare. Per i calabresi è una pecca difficile da ammettere, perchè la testardaggine tipica di questa terra induce a rispolverare l’orgoglio solo come istinto di autodifesa e non già come spirito di appartenenza ad una comunità unità da valori di base. Il risultato è che tanti progetti nascono, ma vengono affogati dopo i primi vagiti dagli errori dei loro stessi ideatori che preferiscono sbarrare la strada alla crescita, in primis umana, del socio/collega/contitolare (che peraltro avrebbe prodotto effetti positivi a cascata) anziché favorirne l’ascesa. Vale, in pratica, una sorta di regola del “tanto peggio tanto meglio”, quasi come se in un contesto più sfavorevole aumentassero le proprie possibilità di prevalere. Le aziende, che così non riescono a godere di potenziali economie di scala, rimangono dei nani: senza collaborazione svaniscono le occasioni e diminuisce la competitività. E questo, in un mondo in cui tutto è a portata di clic, non può che portare ad un vicolo cieco, ad una prospettiva senza futuro. L’apparato produttivo calabrese è asfittico perchè è monotono, quasi mai capace di innovare, in ritardo sui gusti e sulle tendenze. Il punto è che non ci si riesce a mettere assieme per disegnare un grande piano e portarlo a compimento. Magari si parte, ma subito tutto si frantuma sotto i colpi degli egoismi, delle critiche distruttive, di un cieco narcisismo di fronte ad evanescenti risultati che altrove sono dati per scontati. Lo scenario è aggravato dalla sua stessa evidenza: le migliori menti comprendono che in una simile situazione sarà vana ogni speranza di emergere e, dunque, scappano. Rimane, al contrario, chi si trova a suo agio in un territorio in cui vige l’anarchia della legge del più furbo e del più “spregiudicato”. La sensazione è che senza il ripristino dei principi di giustizia e meritocrazia sia persino inutile denunciare ciò che non va e ciò si trasforma in un altro motivo della perpetuazione dell’esistente: se chi parla viene punito invece di essere premiato, il modello vincente è fondato sulla vigliaccheria. Ovvio che così la qualità scompare a vantaggio del “voltagabbanismo” moderno. Dobbiamo allora arrenderci? Non necessariamente, se avremo la forza di ammettere le nostre mancanze e decidere (davvero) di cambiare tutti insieme, se eviteremo di chiuderci a riccio, se rivolteremo la nostra mentalità. In altre parole, se sceglieremo di essere i calabresi del domani e non quelli di ieri. 

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