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Quella serata serrese con Fabrizio De André

A volte la storia, anche quella piccola, minuta, quella con la “s” minuscola prende strade strane e porta alla ribalta episodi e fatti, altrimenti, destinati a rimanere nell’anonimato, a scivolare nell’oblio.

È per uno di questi sentieri accidentati che è arrivato fino a noi, un dettaglio verificatosi a Serra San Bruno a margine della festa dell’Assunta del 1984.

Un dettaglio che i suoi protagonisti hanno fatto diventare un pezzo di storia serrese.

Il 14 agosto di oltre 30 anni fa, le due confraternite, di Spinetto e Terravecchia, si misuravano in una singolare competizione. Un paese, due feste.

Da una parte, la congrega posta al di là del fiume, dall’altra quella collocata nella parte più antica della cittadina.

Il momento centrale della serata era, inevitabilmente, quello destinato ai “cantanti”, la manifestazione musicale con la quale i seggi priorali mostravano i muscoli e misuravano la riuscita della festa, la loro festa.

Nella centralissima piazza San Giovanni la confraternita dell’Assunta di Terravecchia aveva fatto le cose in grande. Ospite della serata Dori Ghezzi.

In maniera discreta, quasi invisibile per le vie della cittadina si aggirava il suo compagno, Fabrizio De André. L’atmosfera esaltante, il clima caldo e le luci delle luminarie erano talmente abbacinanti che solo in pochissimi percepirono la presenza dell’illustre personaggio. Anche perché, De Andrè, forse non amando particolarmente il caos della folla vociante, in attesa della conclusione dello spettacolo, aveva preferito rifugiarsi nei locali del circolo “Unione”.

Fu in quell’ambiente spartano ed insolito che due, allora giovanissimi, serresi incrociarono l’autore di “Bocca di Rosa” e “Via del campo”.

«Lo incontrammo – ha raccontato qualche anno addietro uno dei protagonisti - seduto ad un tavolo, era impegnato a bere un cognac da una bottiglia con in bocca l’ennesima sigaretta. Gli chiedemmo da dove arrivasse la sua musica, quali erano le fonti di tanta ispirazione. Lui rispose con sincerità ed intelligenza. “Viene dal fiume e soprattutto dalle storie di paese”.

Quieto e sorridente aggiunse: “ ho visto che anche qui c’é un fiume che attraversa il paese è come dire che anche voi avete una Spoon river e sicuramente non mancano, nella vostra comunità, i servi disobbedienti alla legge del branco, rifiutati dal potere vestito di umana sembianza”.

Un incontro eccezionale, non solo per la caratura e l’imprevedibilità dell’artista, quanto per la sua curiosità, il suo desiderio di conoscere il patrimonio nascosto di un popolo, quello che herdeianamente pensava fosse custodito nella lingua. Non già in quel codice linguistico convenzionale ed a volte estraneo, rappresentato dall’idioma nazionale, quanto dal dialetto, la lingua del popolo.

«La cosa che non potrò mai dimenticare – prosegue il racconto – è stata la sua richiesta di rispondergli in dialetto. Era curioso di sentire la parlata locale». Un interesse per la lingua, al contempo, intesa come strumento di imperio, di dominio ma anche di disubbidienza e ribellione. Prima di congedarsi, con la bottiglia di cognac «ormai vuota ed il portacenere colmo delle sue sigarette, ci fece notare che le lingue della resistenza al potere, che usa sempre la lingua colta, sono sempre più divertenti e genuine».

Chissà, quale potrebbe essere la lingua della resistenza oggi, nel tempo in cui il potere, incarnato dai tecnocrati della finanza, si esprime in inglese.

Ma oggi, forse, più che di una lingua, la ribellione e la disubbidienza avrebbero bisogno d’interpreti.


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