Calabria, Alarico è già passato di moda

 Un paio di mesi fa pareva che l’argomento principalissimo della Calabria fosse il defunto re dei Goti e la sua eterna dimora.

I cercatori di cose sapute non solo erano certi di dove reperire tale regia inumazione, ma precisavano che le “fonti”, secondo loro plurale, indicavano la bellezza di 30 tonnellate d’oro e 150 d’argento più un candelabro: roba da arricchirci tutti, in questa Calabria sempre sitibonda di soldi!

Dove avessero trovato questo inventario, lo sapevano solo loro, visto che la “fonte”, singolare e unica e sola, Jordanes, non segnala manco un centesimo.

Gli avversari della ricerca affacciavano argomenti contrari, e della stessa consistenza: nessuna; e mostravano palesemente di avercela non con Alarico ma con Occhiuto.

Sia il detto Occhiuto con Sgarbi, sia il loro critico Sangineto, sia tutti gli altri mostravano con ogni evidenza il più netto disinteresse per Alarico, e figuratevi per Stilicone e Galla Placidia e Ataulfo! Ataulfo, chi era costui? Furono interviste e sorrisi e sguardi accigliati, poi sulla Buonanima cadde un silenzio… tombale.

 E sono due esempi: Alarico dopo Nardodipace. E qui s’impongono alcune riflessioni:

-          I Calabresi perseguono sempre un qualche scopo trasversale: Alarico per far dispetto al sindaco o per tenerlo su.

-          I Calabresi sono quasi tutti genialoidi, con eccesso d’intelligenza e difetto di ordine mentale e di metodo.

-          I Calabresi vivono in un eterno presente, perciò si scordano presto di tutto. I megaliti di Nardodipace o la tomba di Alarico? Tutta roba che dura da Natale a santo Stefano.

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Alarico, mito e leggenda del re dei Visigoti

Quando mi si rompe l’auto, vado dal meccanico, e lascio fare a lui senza intervenire; idem, se sto male, col medico. Perciò, lasciate fare agli storici. Chi sono gli storici? Non sono quelli che leggono le fonti, ma quelli che le sanno leggere: non è lo stesso, credetemi.

 Sulla morte di Alarico, le fonti sono due: un cenno di Isidoro di Siviglia, autore morto nel 636, il quale dice solo che il re morì in Italia; ma il suo è un punto di vista iberico, e studia i Goti in Spagna; e un brano di Jordanes, all’incirca contemporaneo, il quale narra che Alarico, saccheggiata nel 410 Roma e altre città, raggiunse lo Stretto per passare in Africa, ma una tempesta lo indusse a tornare indietro, e morì presso Cosenza.

 Nessuno dei due autori ci tramanda il millantato peso di venticinque (25!) tonnellate d’oro, di cui a Cosenza del 2016 tutti sono sicurissimi come se l’avessero personalmente pesato; né che in tanta ricchezza fosse compreso, nel 410, un candelabro ebraico preso nel 70; né tanto meno che tutto il bottino fosse sepolto assieme al re.

 Anzi, e mi stupisco (oggi sono educato!) che nessun megastorico se ne sia accorto, è già eccezionale che Alarico sia stato sepolto con rito barbarico e con degli oggetti: i Goti erano, infatti, da molto tempo cristiani, sia pure ariani. Nulla di tanto anomalo che il re abbia ricevuto un trattamento secondo antiche tradizioni germaniche; e che la salma sia stata fornita di corredo funebre: ma non certo con l’immane tesoro, che logica vuole sia stato portato in Spagna da Ataulfo e Galla Placidia. Lì avrà seguito le complicate vicende dei molti e conflittuali Regni visigotici; e in gran parte finito in mano araba dopo il 711; eccetera in secoli di guerre e ogni altra immaginabile vicissitudine.

 Perciò, levatevi dalla testa che l’eventuale ritrovamento del sepolcro di Alarico apra la strada alla riesumazione di tutto quel denaro e sua utilizzazione a vantaggio di Cosenza e della Calabria; non c’è, a parte che sarebbe dello Stato, e finirebbe in un museo, come è giusto che sia.

 Idem per bufale come le ricerche di Himmler. Nel 1938, l’esponente nazionalsocialista, tornando da una vacanza in Sicilia, pare si sia fermato qualche ora a Cosenza per curiosità: tutto qui, e non era certo nelle condizioni di effettuare qualsiasi operazione se non chiedere notizie a qualcuno, senza ottenerne; e rimase con la poesia del Platen, in italiano tradotta dal Carducci.

 E allora, che interesse suscita, Alarico? Tanto, a dire il vero.

1.       È uno dei molti invasori di Cosenza che pagarono con la morte: Alessandro Molosso, Sesto Pompeo, Ibrahim, Cola Tosto, Geniliatz… Se non sapete chi furono, scrivetemi una bella lettera ufficiale e ve lo rivelo. Ma guardate che fascinoso mito, se lo sappiamo raccontare!

2.       È una figura storica di grande rilievo in sé, e circondato da figure non meno interessanti: Stilicone, e i suddetti Ataulfo e Galla. Se non sapete chi furono, scrivetemi una bella lettera ufficiale e ve lo rivelo.

3.       Studiare il periodo è interessante per un’epoca poco nota della storia calabrese: i sette prosperi e lenti secoli della III regio romana, Lucania et Bruttiorum, di cui Cosenza fu una città notevole, e tappa importante di una strada consolare.

Che fare, per lavorare sul serio?

a.       Ricognizione della toponomastica;

b.      Recupero di eventuali leggende popolari credibili;

c.       Assaggi archeologici rigorosamente scientifici.

Quanto alla “statua”, è decisamente umoristica: Alarico faceva il re, non l’equilibrista circense.

 Si può creare un mito, sopra Alarico? Farci un film? Ma sì: un mito si crea su tutto. Vi faccio un esempione: il romanzo storico britannico del XIX secolo s’è inventato di sana pianta un carattere inglese per Riccardo Plantageneto Cuor di leone, il quale era un normanno di lingua francese e scriveva belle poesie in provenzale, e, come tutti gli eredi di Guglielmo, disprezzava qualunque cosa sapesse di anglosassone. Ma oggi tutto il mondo pensa fosse inglese come la regina Vittoria; la quale, del resto, era tedesca con una remota antenata scozzese.

 Si può inventare, eccome. Provate a chiedermelo, con foglio protocollato e indicazione del compenso.

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Cosenza e il tesoro di Alarico

La memoria di Alarico è ciclica: passano decenni, e non se lo fila nessuno, poi tutti a parlare di lui come fosse un caro cugino o un ex compagno di scuola. Lo storico Jordanes, che forse dipende da Cassiodoro, narra di lui che saccheggiò Roma, ma senza offesa delle persone e dei luoghi sacri; e proseguì, saccheggiando ancora, fino ai Bruzi, l’attuale Calabria, con l’intento di passare in Africa. Una tempesta causò gravi danni alle sue navi, convincendolo a tornare indietro. Giunto a Cosenza, morì improvvisamente. I Goti, presi da gravissimo dolore, lo seppellirono con barbarica solennità: deviato il Busento, fecero scavare una grande fossa, seppellendovi il re con molti tesori. Usarono gli schiavi italiani, che subito uccisero perché si conservasse il segreto. Questo narra Jordanes. Per leggere con opportuno spirito critico il testo, occorrono alcune conoscenze che, da quello che sento in tv, non mi paiono proprio molto diffuse. Le esequie dei re e degli eroi sono, presso i popoli arcaici e barbari, particolarmente spettacolari e tragiche: e uso quest’ultima parola anche con riferimento al teatro greco. L’antichità ci ha lasciato più tombe che case: le piramidi, la tomba di Atreo, il Mausoleo di Alicarnasso… E fino agli editti napoleonici, applicati di fatto un secolo dopo, si seppelliva in chiesa, spesso con monumenti assai elaborati. Alcuni popoli barbari praticavano sacrifici umani, a volte volontari, per accompagnare la morte del re.  Lo stesso Achille sgozza dodici giovani troiani sulla pira di Patroclo; e sulla tomba di Caio Mario vennero uccisi dei senatori romani. Non è dunque strano che i Goti abbiano celebrato il funerale di Alarico con qualcosa di così violento e solenne. Sarebbe strano e incredibile il contrario, se si fossero adattati a seppellirlo come un morto qualunque. Chi, con illuministica supponenza, parla di “leggenda” non conosce il Vico né l’etnologia e l’antropologia. Alarico non era solo il re, era quello che aveva reso i Goti un’entità politica; che li aveva condotti in tutta Europa, in un magnifico continuo duello contro il grande Stilicone; e l’immagine di giovane guerriero era stata coronata dalla poetica contraddittoria vicenda d’amore per Galla Placidia, che poi regnerà sui Visigoti di Spagna e nuovamente sui Romani. Erano, i barbari, in grado di deviare un fiume? Lo fecero, nove secoli prima esatti, i Crotoniati contro Sibari! Scavarono i Persiani l’Athos… Dovevano solo fermare la corrente quanto bastava per scavare la fossa, i Goti. E, precisa Jordanes, avevano tante braccia a disposizione! Avevano tesori a iosa, anche per ornare la salma. L’inventario non ci è pervenuto, perciò non possiamo sapere, come invece ci viene ammannito per sicuro, se c’erano anche oggetti presi a Gerusalemme 340 anni prima, o in qualsiasi altro posto saccheggiato dai Romani a partire da Alba Longa. Non creiamo, questa volta è il caso di dirlo, facili leggende. Aspettiamo, se ci sarà, l’esito delle ricerche. Intanto la storia di Alarico potrebbe servire ad attirare l’attenzione sulla storia calabrese, di solito rigorosamente ignorata, e su quella di Cosenza in specie. Pensate a un film fatto come si deve; a del teatro degno di questo nome. Una curiosità: Cosenza porta male ai suoi conquistatori. Alessandro Molosso, zio del Magno, venne sconfitto e ucciso sull’Acheronte; Sesto Pompeo finì sconfitto da Ottaviano; Ibrahim, che aveva sconfitto gli ultimi bizantini a Taormina, morì nel 903 alle porte della città; Cola Tosto, ribelle a Ferrante I, fu messo atrocemente a morte. Andò meglio a Fabrizio Ruffo e poi a Garibaldi, che però passarono quasi dritti verso Napoli.

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