Al Festival di Cannes il cinema italiano manda in scena la solita solfa antimafia

L’Italia partecipa a Cannes con un film antimafia. Gli spettatori si confermeranno così che l’Italia è la mafia. Il mondo saprà che l’Italia è la mafia. Ovvero, i critici e il pubblico capiranno benissimo che i registi italiani:

  1. non hanno la benché minima fantasia;
  2. sanno che, con un film antimafia, pigliano soldi anche se il prodotto è scadente.

 L’Italia ha sessanta milioni di abitanti. Di questi, una percentuale delinque; e ci sono, a bighellonare, degli stranieri non si sa a che titolo. Detratti delinquenti e passeggiatori, restano almeno 59,5 milioni di Italiani che amano, odiano, lavorano, vorrebbero lavorare, si sposano, divorziano, vanno in chiesa, praticano sport, giocano a carte, scrivono e leggono libri, dormono… insomma, fanno le cose solite di ogni popolo di questo grande mondo.

Ogni tanto, in Italia qualcuno ammazza qualcun altro esattamente come avviene in Siberia o a Los Angeles o a Londra, senza che ciò abbia niente di mafioso, ma per ira o per corna o per rapina… Ogni tanto qualche giudice mette al gabbio dei delinquenti e qualcun altro trova il modo di scarcerarli, come succede dovunque dilaghi il garantismo peloso… Ogni tanto qualche italiano si ricorda di quattro millenni di storia e relative testimonianze archeologiche e artistiche… Ogni tanto viene persino a mente Dante Alighieri… Ogni tanto, e questo sì che è un miracolo, qualcuno sa che Tommaso Campanella fu uno dei massimi filosofi dell’età moderna e tra le basi della filosofia europea, e non un mezzo matto che voleva congiurare con dei tagliagole e con i Turchi; e meno male che lo fermarono in tempo…

 Da tutto questo, io avrei già ricavato un centinaio di bellissimi film di ogni genere cinematografico: storico, sentimentale, intimistico, biografico, cronachistico, comico, ironico… eccetera; o contaminazione di generi, che è una chicca del teatro… La Calabria ne offrirebbe di occasioni e soggetti, altro che mafia.

 Invece il cinema italiano si presenta all’estero con due unici temi: mafia e clandestini. E manco vicende intricate, inattese, di spessore psicologico… Ma no: i Buoni e i cattivi [notare la grafia] come nei racconti per bimbi scemi. I Buoni sono buonissimi, i cattivi sono cattivonissimi.

 E anche noiosi. I cattivi sono un soggetto inesauribile di creazione artistica: ma non possono limitarsi ad essere cattivi; devono pur avere un minimo di umanità. Niente, umani sono solo gli antimafia: che poi ogni tanto li arrestano per mafia….

 Eccomi qui: come mi divertirei a girare un film sull’antimafia che è in combutta con la mafia. “Location”? Isola di Capo Rizzuto, e non solo.

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Lodo Moro: rivelazioni inedite al convegno dell'Università della Calabria

Durante il convegno "Aldo Moro e l'intelligence. Il senso dello Stato e la responsabilità del potere", svolosi ieri a Rende a cura dal Centro di documentazione scientifica sull'intelligence dell'Università della Calabria, sono emerse rivelazioni inedite in merio al "Lodo" che porta il nome dello statista democrsiano ucciso dalla Brigate Rosse.

All'introduzione del direttore del master in Intelligence, Mario Caligiuri hanno fatto seguito una serie di relazioni, tra le quali quelle di Ciriaco De Mita e Luigi Zanda.

Il colpo di scena è arrivato nel corso dell'intervento dello storico Giacomo Pacini, dell''Istituto grossetano della resistenza e dell'età contemporanea. 

Citando documenti inediti, Pacini ha cercato di fornire una ricostruzione del cosiddetto "Lodo Moro"; ossia di quella sorta di patto di non belligeranza che prevedeva la salvaguardia dalla minaccia di attentati terroristici in cambio della liberazione dei militanti palestinesi arrestati sul suolo italiano, la tolleranza per i traffici di armi verso il Medio Oriente, nonchè un impegno a arrivare a un riconoscimento ufficiale da parte delle diplomazie europea dell'Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese.


Nel corso della sua relazione, Pacini ha sostenuto che "sulla base del materiale che è stato possibile rinvenire, si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell'ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi. 
Fu però con il ritorno di Aldo Moro al ministero degli Esteri che il patto prese davvero forma. In particolare, dopo l'arresto, avvenuto a Ostia nel settembre 1973, di 5 palestinesi trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell'ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione (e che coinvolsero anche la Libia) l'Olp si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano. Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell'intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973. Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi da sempre molto legato a Aldo Moro"

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L’Italia uscita dal 1943-5 non fu quella della resistenza

 Nel 1978 presidente della Repubblica venne eletto Sandro Pertini, che era stato tra gli esponenti del Comitato di Liberazione. La cosa fu presentata come un fatto resistenziale, ma era la rotazione delle cariche tra partiti, e prima di lui c’erano stati democristiani come Leone che non aveva resistito a niente, e paciosi liberali come Einaudi; anzi, il primo, quello provvisorio, De Nicola, era pure monarchico; Napolitano non partecipò a nessun atto bellico; l’avventura di Ciampi fu insignificante. Insomma, nel 1978 toccava ai socialisti, e scelsero Pertini: tutto qui.

 Subito dopo il 1945, la cifra ufficiale dei partigiani era di 80.000; probabilmente già gonfiata, ma prendiamola per buona; i milioni, vennero dopo. Che fine fecero, questi 80.000 partigiani effettivi?  

 L’Italia uscita dal 1943-5 non fu quella della resistenza, ma la riesumazione dei partiti del 1922, con qualche ammodernamento; e sotto il controllo dell’intesa dei vincitori USA e URSS, con l’aggiunta, in Italia, del Vaticano. C’era poco spazio per i partigiani.

  Quando, negli ultimissimi giorni di aprile, le truppe tedesche o si ritirarono o si arresero agli Angloamericani, diversa e varia fu la sorte dei fascisti della Repubblica Sociale, e ne parleremo in altra occasione. Il territorio del Nord venne occupato dalle truppe alleate, ma in alcune zone e città avvenne un movimento politico e militare qualche giorno prima. Il CLN tentò di capitalizzare l’occasione, nominando dei prefetti partigiani; all’arrivo dei carabinieri, questi furono destituiti, e s’insediarono prefetti veri.

 Le bande consegnarono le armi, anche se molti pensarono bene di costituirsi dei depositi segreti, che o vennero scoperti negli anni seguenti, o, dimenticati, finirono mucchi di ruggine.

 La resistenza venne assunta dai socialcomunisti come propria, ma erano i tempi della scomunica e della lotta anticomunista, perciò a ricordare i partigiani furono quasi solo PCI e PSI.

 Una mitopoiesi resistenziale comunque nacque tardi, verso gli anni 1970-80, per dare veste ideologica al “compromesso storico” che fece sopravvivere alcuni anni la cachettica e correttissima Prima repubblica (la Seconda non è migliore, anzi!); si parlò di “arco costituzionale” che comprendeva tutti i partiti tranne quello neofascista del MSI. In mancanza di battaglie e vittorie, s’iniziarono a piangere i morti e i massacri.

 I partigiani combattenti, intanto, invecchiavano o scordati o ridotti ad elementi decorativi di qualche manifestazione: come i garibaldini del secondo Ottocento.

 Scarsa fu la letteratura ispirata ai partigiani; rarissimo qualche film; e libri e film di tono malinconico, come di un’intima delusione.

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Il caso Minzolini e la sfiducia nei partiti

La vicenda che, nei giorni scorsi, in Senato ha visto protagonista Augusto Minzolini è solo l’ultimo di una lunga serie di esempi in cui la “casta” interviene per preservare se stessa. Nel caso dell’ ex direttore del Tg1 condannato, a due anni e sei mesi, per aver speso 65 mila euro con la carta di credito della Rai, la macchina del trasversale soccorso parlamentare ha dimostrato la sua proverbiale efficienza.

Un’efficienza sconosciuta in altri ambiti.

Ma quando c’è da salvare la cadrega, deputati e senatori si distinguono per la generosa solidarietà.  Una generosità determinata dall’assenza di diaframma tra la gran parte dei partiti presenti in Parlamento. In molti casi, sono l’uno la fotocopia dell’altro. Comitati il cui centro di gravità è rappresentato da interessi, spesso in conflitto con quelli dei cittadini.

Episodi sui quali, in altri tempi, i partiti avrebbero alzato barricate, oggi vengono affrontati all’insegna del “volemose bene”.

Capita, quindi che, un giorno, i senatori di Forza Italia non votino la sfiducia al ministro Lotti e il giorno successivo, quelli del Partito democratico si sentano in dovere di soccorrere il collega azzurro.

La volontà democrat d’inviare un manipolo di truppe cammellate a difendere il ridotto Minzolini, lo si deduce da una circostanza. Nell’occasione, al Largo del Nazareno è stata lasciata libertà di coscienza. Cosa c’entri con la coscienza un voto in cui si delibera l’applicazione di una legge (Severino) che stabilisce la decadenza del parlamentare condannato a più di due anni, è un mistero piuttosto buffo.

La vicenda rappresenta, piuttosto, il paradigma di quanto la politica sia arroccata nella propria torre d’avorio. I partiti sono sempre più alieni rispetto al Paese che pretendono di rappresentare.  Deputati e senatori, come i passeggeri del treno senza macchinista lanciato a folle velocità, descritto da Zola nella “Bestia umana”, continuano a fare tranquillamente i loro comodi.

Il treno, però, prima o poi si schianterà.

Tanto più che il “teatrino della politica” risulta sempre più indigesto. Gli italiani ne hanno le tasche piene di cacicchi,  incapaci, non solo di risolvere i problemi, ma anche di capirli.

Nulla di più normale, quindi, se i cittadini non hanno alcuna fiducia nei partiti.

La cifra di quanto la diffidenza sia radicata, è stata fotografata da un sondaggio condotto dall’Istituto Demopolis.

L’indagine, effettuata dal 5 al 7 marzo, ha rilevato che solo cinque persone su cento nutrono fiducia nei partiti.

Un dato dovrebbe far suonare, non uno, ma mille campanelli d’allarme:

la percentuale di chi si fida dei partiti è scesa di  20 punti rispetto al 1992, l’anno di Mani Pulite.

*articolo pubblicato su mirkotassone.it

Femminicidio, prevenzione e diritti umani

Nel 2013 fa un moldavo – sarei curioso di sapere che ci faceva in Italia, e se era legittimato a farlo – uccise la moglie, pur essa moldava, ed è stata condannato all’ergastolo. Bene, e potremmo finire qui.

 Arriva invece la condanna per l’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, per non aver fatto abbastanza in difesa della donna, che pure aveva denunziato precedenti violenze.

 In linea di principio, la Corte ha ragione. Se io denunzio una minaccia qualsiasi da parte di persona ostile o semplicemente scemo del villaggio, devo poter sperare che le forze dell’ordine mi proteggano. Giusto, ma mica posso pretendere che mi si assegni una scorta dovunque vada, e tanto meno lo vorrei; e, nel caso di quella povera donna, sarebbe occorsa una scorta in casa tutto il giorno e la notte. Non è possibile, e ciò renderebbe infelice la vita di tutti; senza scordare l’ironia di Giovenale, Quis custodiet ipsos custodes? Ovvero, la scorta a sua volta va sorvegliata.

 Non si fa così, bensì il metodo da seguire è quello preventivo: intimare, intimidire, terrorizzare il potenziale violento. Basta poco, basta una partaccia come si deve: in genere, i violenti sono dei nevrotici, e, forti con i deboli, sono sempre deboli con i forti; per mettere paura a dei tipi così, una faccia feroce di maresciallo è più che sufficiente. Paura di che? Paura… E qui cito Virgilio, quando il dio Nettuno minaccia i Venti con questa sola parola: Quos… Tradotto, Tremate, non so cosa vi faccio. La vera paura è quella indefinita.

 Spero abbiate capito. Però sapete che mondo corre? Che se un carabiniere o poliziotto minaccia il birbaccione, e il birbaccione si lamenta, la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per mancato rispetto dei diritti umani del birbaccione medesimo. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, è il tempio della libidine dei diritti, di qualsiasi diritto vero o presunto o millantato o immaginario. Nel caso del 2013, il poi assassino aveva diritto a non essere minacciato, la moglie aveva diritto a essere tutelata: mettetevi d’accordo con voi stessi.

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La finzione è finita, l’Italia va peggio della Grecia

Si chiama movimento indotto. E’ l’illusione che si ha, ad esempio, quando ci si trova su un treno fermo e a muoversi è quello sul binario accanto. Pur rimanendo immobili, si ha la percezione di essere in movimento. E’ ciò che è capitato all’Italia di Renzi.

Sul Paese è stata proiettata l’idea che ci si stesse muovendo a ritmo forsennato, salvo ritrovarsi, alla fine del viaggio, al punto di partenza. Dopo il fatale 4 dicembre, tutti i nodi sono arrivati al pettine.

Gli italiani hanno scoperto che le riforme, vere o presunte, non hanno cambiato un bel nulla. A ricordare a tutti la condizione dell’Italia, ci ha pensato l’Europa. Proprio l’Ue ha, infatti, ammonito il Governo a trovare 3,5 miliardi di euro. Una manovra correttiva necessaria ad aggiustare i conti pubblici. La presa di posizione di Bruxelles ci dà la misura di come, dopo 6 anni di democrazia commissariata, i problemi siano rimasti tutti sul tavolo.

Sul fronte del miglioramento del rapporto deficit/Pil, la situazione, non solo non è migliorata, ma si è addirittura incancrenita. Prova ne sia l’aumento del debito pubblico nel corso dell’ultimo lustro (ne avevamo parlato qui). La situazione non è migliorata neppure sul versante occupazionale. Se si eccettuano le trasformazioni, drogate dagli incentivi, dei rapporti a termine, in contratti a tempo indeterminato, la percentuale dei disoccupati è rimasta a due cifre.

La narrazione che ci voleva fuori dalla crisi, alla fine, si è schiantata contro il muro della realtà.

La nuda realtà evidenzia un’economia ferma, asfittica, stagnante. I dati diffusi della Commissione europea sono impietosi. Il prodotto interno lordo italiano, nel 2017, crescerà di un misero 0,9 %. Nel 2018, non supererà l’1,1. Se l’economia non cresce, aumenta il rapporto deficit/Pil destinato, nell’anno in corso, ad attestarsi al 133,3 %.

In altri termini, le previsioni relegano l’Italia all’ultimo posto in Europa.

Nel 2017 – 2018 , i Paesi dell’Ue cresceranno in media dell’1,6 e dell’ 1,8%. Numeri, quasi doppi, rispetto a quelli italiani.

Il raffronto diventa ancor più impietoso se si compara la crescita italiana con quella della Grecia e della Bulgaria. Nei due Paesi più squinternati d’Europa, nel 2017, il Pil crescerà rispettivamente del 2,7 e del 2,9%. Percentuali, tre volte superiori a quelle italiane.

Archiviate le favole, i numeri restituiscono, quindi, la fotografia di un Paese che, in questi anni, è rimasto a guardarsi i piedi seduto su una montagna di bugie.

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Il papato, l'Italia ed i Patti Lateranensi

Il problema politico dell’Italia, come rilevava già il Machiavelli, è la presenza millenaria di uno Stato della Chiesa, che, in quanto Stato, abbisognava di un territorio e delle forze armate proprie; il che era in evidente contrasto con il concetto di unità.

 Il Congresso di Vienna aveva restaurato lo Stato Pontificio nei confini del 1796: Roma e Lazio (fino a Sora), Umbria, Marche, Romagna. Ne era sovrano, con rango di re, il papa pro tempore.

 Pio IX nel 1848 ne aveva fatto un Regno costituzionale; ma gli eventi lo superarono, e nel 1849, con l’assassinio del ministro Pellegrino Rossi, venne proclamata una Repubblica mazziniana. Il papa si rifugiò a Gaeta, e chiese l’aiuto delle Potenze cattoliche. Intervenne di fatto solo la neonata Repubblica francese, il cui presidente e prossimo dittatore poi imperatore, era Luigi Napoleone Bonaparte. Questi era sostenuto dal partito cattolico francese, e doveva comportarsi di conseguenza.

 Tornato il papa a Roma e riaffacciandosi, con la Guerra di Crimea e il Congresso di Parigi, la questione politica italiana, Napoleone III e Cavour s’intesero per una confederazione tra Sardegna allargata all’Italia Settentrionale; un Regno dell’Italia Centrale; il Regno Meridionale; e Roma da lasciare alla Chiesa. Era un programma fragile, e ancora una volte prevalsero le cose sulle intenzioni: la Sardegna si annesse Milano, Parma, Modena, Bologna e Firenze, e cedette alla Francia Nizza e Savoia. Napoleone III si assunse l’onere di proteggere il papa.

 Quando Garibaldi conquistò le Due Sicilie con troppa facilità, e prese Napoli in treno, non fece mistero di voler puntare su Roma e cacciarne Pio IX, che definiva in un modo che qui non posso ripetere. Napoleone III, per evitare un diretto intervento francese e complicazioni europee, incaricò Cavour di fermare Garibaldi; e, trovato il vuoto, questi si annesse anche Marche, Umbria e l’intero Meridione.

 Restò al papa appunto Roma con il Lazio, in termini più brevi dell’attuale. L’Italia tuttavia proclamò Roma sua capitale. L’evidente contrasto venne risolto con la Convenzione di settembre 1864, con cui l’Italia non rinunciava a Roma ma a ogni atto di forza per averla, e trasferiva intanto la capitale a Firenze. In cambio, la Francia ritirava le truppe; ma le dovette mandare ancora dopo il colpo di testa di Garibaldi del 1867, tuttavia sconfitto dai Pontifici.

 Intanto si complicavano gli equilibri europei, e la Prussia di Bismarck attirava in una trappola Napoleone III, lo batteva e faceva prigioniero a Sedan, annientava anche la rinata repubblica. L’Italia, sentendosi libera da ogni impegno, attaccava Roma, il 20 settembre 1870. Il papa ordinò la resistenza perché non si potesse dire che avesse rinunciato al trono regale, poi, con una resa ai soli effetti militari della città, si chiuse in Vaticano. Da allora si aprì una frattura insanabile tra la Chiesa e il Regno d’Italia.

 Insanabile, a dire il vero, non del tutto. La Chiesa rifiutò la Legge delle guarentigie, ma se ne servì; e nessuno poté togliere agli Italiani, Vittorio Emanuele incluso, la Fede cattolica e le pratiche di pietà. Tuttavia lo Stato era formalmente scomunicato, e il papa si dichiarava prigioniero; vietando ai cattolici ogni partecipazione alla vita politica italiana.

 Un piccolo passo si ebbe con Giolitti e il Patto Gentiloni (ascendente di costui!), che consentiva ad alcuni cattolici di candidarsi a titolo strettamente personale; mentre veniva condannato il Partito Popolare di Sturzo. Scoppiata la Prima guerra mondiale, la Santa Sede nominò un Vescovo Catrense con giurisdizione sui cappellani militari. Piccole cose, tuttavia passi.

  Mussolini iniziò trattative segretissime, servendosi di intermediari insospettabili, tra cui il gesuita Tacchi Venturi, lo storico delle religioni, e l’avvocato Pacelli, fratello del futuro Pio XII. Base di discussione era, da entrambe le parti, il riconoscimento politico; sarebbero seguite poi le soluzioni ai problemi particolari.

 Del tutto inattesa, venne annunziata la firma dei Patti Lateranensi, l’11 febbraio 1929, festa della Madonna di Lourdes. La solenne cerimonia vide l’incontro tra il Capo del governo italiano, Mussolini, e il Segretario di Stato di Pio XI, cardinale Gasparri. I Patti constavano di due documenti, il Trattato agli effetti internazionali, e il Concordato agli effetti interni. Il primo riconosceva al papa un suo Stato indipendente, la Città del Vaticano; l’altro attribuiva al cattolicesimo la dignità di religione nazionale, del resto sancita dall’art. 1 dello Statuto del 1848, sempre in vigore.

 Attenzione qui. Mai come quando si tratta di religione, le parole pesano. Religione nazionale non significa religione dello Stato, e tanto meno una Chiesa di Stato come nel mondo protestante; significa l’affermazione che il popolo italiano è (o, nel 1929, era!) storicamente e attualmente cattolico, e perciò rappresentato dalla Chiesa Romana. A questa si attribuivano dunque privilegi come l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.

 Definite le questioni politiche e disciplinari, non è che tutto fosse senza ombre. Negli ambienti fascisti stessi si mostrò una certa opposizione, sia da parte di neopagani come Evola, sia, con ben altro peso, da risorgimentalisti come Gentile, che, una volta tanto d’accordo con Croce, votò contro in Senato; e altri criticarono Mussolini perché cedeva del territorio nazionale, per quanto piccolissimo. Né gli uni né gli altri né gli altri ancora preoccuparono il duce, che mirava a porre fine a una piaga morale e politica che aveva lacerato il popolo italiano.

 Più turbolenti alcuni ambienti come l’Azione Cattolica. Appena firmati i Patti, divamparono dei brevi ma vivaci contrasti per la questione dell’educazione della gioventù; e ne approfittò volentieri l’anticlericalismo del vecchio fascismo originario. Una curiosità: il bonario fascismo soveratese se la prese con i Salesiani, i quali, leggiamo nella Cronaca dei direttori, celebrarono il Corpus Domini al loro interno. La pace fece presto a tornare in tutta Italia, e quindi anche a Soverato.  I rapporti tra Chiesa e Regime furono solidi e tranquilli; nemmeno la guerra turbò l’indipendenza della Santa Sede.

 Nel 1934, intanto, la Chiesa Cattolica tedesca firmava un Concordato con il Reich nazionalsocialista. Con tale atto, Hitler stravolgeva non solo la politica laicista di Weimar, ma la stessa tradizione anticattolica di Bismarck.

 La costituzione del 1948 ci ammannisce un articolo 7 che, fuori da ogni logica giuridica, fa dei Patti Lateranensi uno dei “principi fondamentali” della vita pubblica italiana. Quanto era più saggio lo Statuto del 1848, che parlava di “religione”; e quelli mussoliniani del 1929 erano dei “Patti”, non dei “principi”. I patti, che per definizione si fanno tra due parti distinte, si discutono e possono essere non solo modificati (come avvenne nel 1984), ma anche denunziati da una o da entrambe le parti; i principi dovrebbero essere eterni.

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Giulio Regeni e le verità nascoste

 Quelli che vogliono la “verità per Regeni” vogliono, detto in generale, la loro verità per Giulio Regeni; e comunque, anche in buona fede, non sono preparati a una verità per Regeni che non sia la loro verità. Il modesto sottoscritto, che dubita di qualsiasi cosa, dubita di ogni tesi precostituita, e si chiede:

-          L’università di Cambridge aveva proprio tanta urgenza di una ricerca sul sindacato degli ambulanti del Cairo?

-          Perché gli ambulanti e non i tranvieri o ferrovieri o bidelli o eccetera?

-          Ammesso, ci doveva proprio mandare uno studente italiano?

-          Questo studente italiano, che informazioni aveva dei problemi degli ambulanti del Cairo?

-          Era stato avvertito che in Egitto la situazione politica non è delle più quiete?

-          Aveva dei permessi, delle presentazioni, degli accreditamenti… tipo quando io, per la mia tesi di laurea, potei accedere all’Istituto Germanico con lettera del prof… o no?

-          Come mai l’università di Cambridge, secolare prestigiosa accolita di gentlemen, si avvale della facoltà di non rispondere come un mariuolo di Forcella o un politicante ladro di Milano? Se io non ho niente di losco da nascondere, non mi avvalgo, e lo dico!

-          Chi era il presunto capo degli ambulanti, che prima chiese soldi, poi, o deluso o insospettito, denunziò Regeni?

-          Chi furono gli scimmioni che, per far parlare Regeni, lo torturarono a morte?

 Volete sapere come la penso, io? Che il povero Regeni venne sì torturato, e non parlò perché non aveva niente da confessare, e continuava a ripetere che era lì per una ricerca universitaria. Era, infatti, quello che credeva lui… Quello che sapeva chi lo mandò, noi non lo sapremo mai.

 Corollario: quando io andavo a scuola, la prima cosa che m’insegnarono i miei buoni professori salesiani è che una cosa è la scuola, e un’altra la realtà. Noi dotti diciamo che è la chiave di lettura di un pensiero: cioè, Dante amava Beatrice morta, e sposò Gemma viva!

 Invece abbiamo dovuto chissà come “liberare” le due salvatrici della Siria; e dobbiamo piangere il povero Regeni. Sarebbe il caso di un poco di sana prudenza, invece di farsi prendere da manie ideologiche.

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