Cosenza, il giovane Alarico e il suo tesoro

Domenica scorsa (19 aprile), sulla pagina Facebook “Il senso del tempo il valore di un posto”, nell'ambito dell'iniziativa del tè letterario “Calabrie Italia Mondo conversazioni emozionali sulle bellezze pret-à-porter della Calabria”, si è tenuta una puntata speciale su “Alarico Re dei Visigoti".

Lo speciale è stato curato da Paola Morano (esperta d'arte e guida turistica), dallo storico Stefano Vecchione e dal regista Gianfranco Confessore.

Scopo dell'iniziativa, oltre a decantare le imprese di re Alarico, promuovere il rilancio turistico post covid19.

Partendo proprio dalla regione Calabria, dalle sue tante storie e leggende.

Cosenza la città dei Bruzi è stata luogo fatale per un re che, probabilmente, deve l’immortalità ad una suggestiva narrazione che lo vuole sepolto nel letto del fiume Busento.

Ma chi era Alarico I re dei Visigoti? Il popolo germanico dei Goti era considerato barbaro perché non parlava né greco né latino e ,in senso traslato, indicava per i greci il “forestiero”.

La calata dei barbari in Italia, avvenuta nella tarda età imperiale, si inserisce in un periodo di mutazioni culturali. E’ indubbio che attraverso le scorrerie e gli insediamenti delle genti germaniche siano cambiate le condizioni della vita quotidiana e dei suoi fondamenti morali nei vari centri abitati e, in modo particolare, a Roma, che da centro di dominio e divulgazione greco-latina diventerà poi luogo di consacrazione e diffusione del Cristianesimo.

La storia di Alarico I il Balta, era già scritta nel suo nome che era Alareix (il re di tutti) discendente dal dio Balder figlio di Odino, nacque a Perice, nel 370 nell’antica Dacia (attuale Romania) alla foce del Danubio ai confini con l’impero e come tutta la sua gente conosceva il greco ed il latino.

Alarico corporatura atletica, chioma bionda rossiccia, occhi chiari, bello e forte condottiero con il suo cavallo bianco non temeva rivali, visse la maggior parte dei suoi giorni a contatto con i Romani, assorbendone usi e costumi.

Le fonti storiche narrano che vestiva generalmente l’uniforme degli ausiliari romani e portava calzoni germanici.

Il re dei Visigoti, detto il balta (audace), federati dell’impero romano, aspirava al comando delle legioni imperiali, e puntò prima verso l’impero d’Oriente e poi all’Italia approfittando della debolezza dell’impero diviso in due. C’è da considerare che quando Alarico invase Roma, che si diceva Caput mundi, essa non era più la capitale dell’impero romano, perché Costantino, l’imperatore che rese possibile il trionfo del cristianesimo nell’Impero, aveva fondato una nuova capitale, Costantinopoli, sul luogo dell’antica Bisanzio.

Alarico non odiava Roma, ma perché Onorio, imperatore d’Occidente, non accettò di concedergli la dignità di magister militum, Alarico fu fermato per ben 2 volte dallo stesso Stilicone, generale romano e, dopo aver tentato invano di accordarsi con l’imperatore Onorio, avanzò su Roma.

Il 24 agosto attraverso la via Salaria , i Goti marciarono sull’urbe mettendo a ferro e fuoco la città spogliandola di ogni bene arrivarono al Quirinale raggiungendo poi l’area dei fori danneggiando la parte a nord dei fori oltre che la Basilica Emilia e quella Giulia saccheggiando il tempio della pace al cui interno erano presenti i tesori di guerra dei romani tra cui manufatti originali greci di Fidia di Mirone, oltre che numerose opere d’arte preziosissime, il foro della pace, dove erano allocate le spoglie del tempio di Salomone tra cui il candelabro d’oro a sette bracci (ebr. menorah) e l’Arca dell’Alleanza depredati da Tito nel 70 d.C. e celebrati nell’arco trionfale a lui dedicato.

Le fonti antiche tramandano che nonostante la ferocia del saccheggio, che durò 3 giorni, i barbari risparmiarono i principali edifici sacri e quelli che vi avevano trovato rifugio. Alarico, considerato strumento della punizione divina, risparmiò solo le chiese ed il tesoro degli apostoli, che fu portato in Vaticano.

Non potendo aspirare alla toga imperiale perché «barbaro», comandò una rapida ritirata nonostante Roma potesse dare tanto ancora. Mancavano, però, i viveri per i suoi Goti, che tormentati dalla fame presero assieme al loro re la strada verso sud.

Lasciarono la città eterna con il ricco bottino e con un gran numero di prigionieri tra cui Galla Placidia sorella dell’imperatore Onorio e il generale romano di origine illirica, Ezio.

Alarico intendeva passare in Sicilia e poi in Africa, che all’epoca erano province romane ricche e tranquille, adatte quindi a dare finalmente una patria al popolo dei Goti. I barbari in 400.000 marciarono percorrendo la via Annia-Popilia diretti verso Reggio Calabria. Arrivati alla punta dello stivale, incendiarono la città e successivamente tentarono di attraversare il tempestoso stretto di Messina, ma molte navi in numero incalcolabile, di tutte le forme e dimensioni, naufragarono o andarono disperse. Anche Spartaco come Alarico non era riuscito ad attraversare lo stretto di Messina. I Visigoti, non potendo più raggiungere Carthago (Cartagine), città adatta a diventare la loro capitale, furono costretti a percorrere la strada a ritroso avendo come meta la Gallia. Alarico con estrema libertà attraversò la terra dei Brettii e Cosenza che al tempo contava circa 2000 abitanti fino ad accamparsi nel vallum dove il Crati incontra il Busento. Ma la vita dell’ormai quarantenne condottiero venne bruscamente interrotta. Lo storico Jordanes, vescovo di Crotone, conferma la tesi della sepoltura di Alarico nel Busento, poiché afferma di averlo letto nella Historia Gothica di Cassiodoro di Squillace.

Ma quale fu la causa della morte di Alarico? Venne colpito da un dardo, oppure da febbre malarica o forse morì a seguito di un avvelenamento per mano della stessa Galla Placidia, oppure sfibrato da una vita durissima, che per i Goti durava in media 40 anni?

Certo è che gli schiavi deviarono il letto del fiume Busento, scavarono una fossa profonda e seppellirono il re con l’armatura, il suo cavallo, oltre che con un cospicuo tesoro, fatto di trofei regali e un ricco corredo funerario. Affinché non fosse svelato il luogo di sepoltura, furono massacrati tutti coloro che avevano seppellito il re dei Goti e lo avevano consegnato alla leggenda.

Daniel Costa, che ha pubblicato il volume The Treasury of Alaric, sostiene che in esso era compreso il forziere contenente antichi documenti ebraici, come pergamene, rotoli, codici, monete d’oro e d’argento e fra i tanti cimeli storici anche il candelabro a sette bracci d’oro massiccio, rappresentato nell’arco di Tito a Roma.

I Visigoti, guidati da Ataulfo, cognato e successore di Alarico, si diressero verso la Gallia meridionale, dove a Narbona furono celebrate le nozze di Ataulfo e Galla Placidia, che ricevette come dono nuziale l’altra parte del tesoro sottratto a Roma da Alarico, come testimoniò lo storico coevo, Olimpiodoro di Tebe.

In tanti cercarono il re ed il suo tesoro durante il corso del tempo e sotto il regime fascista nel 1937, ci fu la massima diffusione del mito di Alarico, addirittura Heimrich Himmler, capo delle Ss naziste seguì personalmente una campagna di scavi, che non portò ad alcun risultato concreto.

La storia del re Barbaro è diventata fonte d’ispirazione anche per grandi poeti e scrittori come August Von Platen che scrive nel 1820 “La tomba nel Busento “ tradotta da Giosuè Carducci, grazie al quale il luogo del mito si trasforma in un paesaggio letterario entrando definitivamente nell’immaginario Europeo. Se è vero che usi costumi dell’antica Roma si conoscono anche per il grande contributo divulgativo dell’industria cinematografica,forse un ruolo per veicolare il personaggio del leggendario condottiero può essere affidato al cinema, alle docufiction, oppure al web.

Per ora facendo una ricerca in rete si possono trovare 900 mila voci su “ Alarico”.

Cosenza è diventata il punto d’incontro tra logos e mytos nella vita del giovane re goto visitandola oggi si ammira la suggestiva confluenza dei fiumi Busento e Crati e la scultura “Alarico sul Cavallo” dell’artista Paolo Grassino, che vuole essere la traccia materiale della storia ormai passata; non distante dalla scultura può capitare di ascoltare le tante guide turistiche che parlano del condottiero tenendo alta l’attenzione dei turisti rapiti sul far della sera dalle luci, collocate sugli argini, che esaltano il chiaroscuro dei corsi d’acqua rendendo il racconto ancora più suggestivo e poi senza allontanarsi troppo è possibile degustare l’ottima torta “Alarico”. Chi arriva a Cosenza non troverà il tesoro di Alareix, ma certamente troverà un tesoro di città. 

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Calabria, Alarico è già passato di moda

 Un paio di mesi fa pareva che l’argomento principalissimo della Calabria fosse il defunto re dei Goti e la sua eterna dimora.

I cercatori di cose sapute non solo erano certi di dove reperire tale regia inumazione, ma precisavano che le “fonti”, secondo loro plurale, indicavano la bellezza di 30 tonnellate d’oro e 150 d’argento più un candelabro: roba da arricchirci tutti, in questa Calabria sempre sitibonda di soldi!

Dove avessero trovato questo inventario, lo sapevano solo loro, visto che la “fonte”, singolare e unica e sola, Jordanes, non segnala manco un centesimo.

Gli avversari della ricerca affacciavano argomenti contrari, e della stessa consistenza: nessuna; e mostravano palesemente di avercela non con Alarico ma con Occhiuto.

Sia il detto Occhiuto con Sgarbi, sia il loro critico Sangineto, sia tutti gli altri mostravano con ogni evidenza il più netto disinteresse per Alarico, e figuratevi per Stilicone e Galla Placidia e Ataulfo! Ataulfo, chi era costui? Furono interviste e sorrisi e sguardi accigliati, poi sulla Buonanima cadde un silenzio… tombale.

 E sono due esempi: Alarico dopo Nardodipace. E qui s’impongono alcune riflessioni:

-          I Calabresi perseguono sempre un qualche scopo trasversale: Alarico per far dispetto al sindaco o per tenerlo su.

-          I Calabresi sono quasi tutti genialoidi, con eccesso d’intelligenza e difetto di ordine mentale e di metodo.

-          I Calabresi vivono in un eterno presente, perciò si scordano presto di tutto. I megaliti di Nardodipace o la tomba di Alarico? Tutta roba che dura da Natale a santo Stefano.

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Alarico, mito e leggenda del re dei Visigoti

Quando mi si rompe l’auto, vado dal meccanico, e lascio fare a lui senza intervenire; idem, se sto male, col medico. Perciò, lasciate fare agli storici. Chi sono gli storici? Non sono quelli che leggono le fonti, ma quelli che le sanno leggere: non è lo stesso, credetemi.

 Sulla morte di Alarico, le fonti sono due: un cenno di Isidoro di Siviglia, autore morto nel 636, il quale dice solo che il re morì in Italia; ma il suo è un punto di vista iberico, e studia i Goti in Spagna; e un brano di Jordanes, all’incirca contemporaneo, il quale narra che Alarico, saccheggiata nel 410 Roma e altre città, raggiunse lo Stretto per passare in Africa, ma una tempesta lo indusse a tornare indietro, e morì presso Cosenza.

 Nessuno dei due autori ci tramanda il millantato peso di venticinque (25!) tonnellate d’oro, di cui a Cosenza del 2016 tutti sono sicurissimi come se l’avessero personalmente pesato; né che in tanta ricchezza fosse compreso, nel 410, un candelabro ebraico preso nel 70; né tanto meno che tutto il bottino fosse sepolto assieme al re.

 Anzi, e mi stupisco (oggi sono educato!) che nessun megastorico se ne sia accorto, è già eccezionale che Alarico sia stato sepolto con rito barbarico e con degli oggetti: i Goti erano, infatti, da molto tempo cristiani, sia pure ariani. Nulla di tanto anomalo che il re abbia ricevuto un trattamento secondo antiche tradizioni germaniche; e che la salma sia stata fornita di corredo funebre: ma non certo con l’immane tesoro, che logica vuole sia stato portato in Spagna da Ataulfo e Galla Placidia. Lì avrà seguito le complicate vicende dei molti e conflittuali Regni visigotici; e in gran parte finito in mano araba dopo il 711; eccetera in secoli di guerre e ogni altra immaginabile vicissitudine.

 Perciò, levatevi dalla testa che l’eventuale ritrovamento del sepolcro di Alarico apra la strada alla riesumazione di tutto quel denaro e sua utilizzazione a vantaggio di Cosenza e della Calabria; non c’è, a parte che sarebbe dello Stato, e finirebbe in un museo, come è giusto che sia.

 Idem per bufale come le ricerche di Himmler. Nel 1938, l’esponente nazionalsocialista, tornando da una vacanza in Sicilia, pare si sia fermato qualche ora a Cosenza per curiosità: tutto qui, e non era certo nelle condizioni di effettuare qualsiasi operazione se non chiedere notizie a qualcuno, senza ottenerne; e rimase con la poesia del Platen, in italiano tradotta dal Carducci.

 E allora, che interesse suscita, Alarico? Tanto, a dire il vero.

1.       È uno dei molti invasori di Cosenza che pagarono con la morte: Alessandro Molosso, Sesto Pompeo, Ibrahim, Cola Tosto, Geniliatz… Se non sapete chi furono, scrivetemi una bella lettera ufficiale e ve lo rivelo. Ma guardate che fascinoso mito, se lo sappiamo raccontare!

2.       È una figura storica di grande rilievo in sé, e circondato da figure non meno interessanti: Stilicone, e i suddetti Ataulfo e Galla. Se non sapete chi furono, scrivetemi una bella lettera ufficiale e ve lo rivelo.

3.       Studiare il periodo è interessante per un’epoca poco nota della storia calabrese: i sette prosperi e lenti secoli della III regio romana, Lucania et Bruttiorum, di cui Cosenza fu una città notevole, e tappa importante di una strada consolare.

Che fare, per lavorare sul serio?

a.       Ricognizione della toponomastica;

b.      Recupero di eventuali leggende popolari credibili;

c.       Assaggi archeologici rigorosamente scientifici.

Quanto alla “statua”, è decisamente umoristica: Alarico faceva il re, non l’equilibrista circense.

 Si può creare un mito, sopra Alarico? Farci un film? Ma sì: un mito si crea su tutto. Vi faccio un esempione: il romanzo storico britannico del XIX secolo s’è inventato di sana pianta un carattere inglese per Riccardo Plantageneto Cuor di leone, il quale era un normanno di lingua francese e scriveva belle poesie in provenzale, e, come tutti gli eredi di Guglielmo, disprezzava qualunque cosa sapesse di anglosassone. Ma oggi tutto il mondo pensa fosse inglese come la regina Vittoria; la quale, del resto, era tedesca con una remota antenata scozzese.

 Si può inventare, eccome. Provate a chiedermelo, con foglio protocollato e indicazione del compenso.

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Alarico fini`in pesce

Desinit in piscem, diciamo noi dotti quando una cosa degenera come l’oraziano cavallo con la coda ittica. Sembrava quasi quasi che la Calabria volesse prendere sul serio un pezzettino della sua storia, la morte e sepoltura di Alarico; e invece dalle notizie che traspaiono, siamo alle solite. Due mesi fa circa, il troppo noto e celebrato Vittorio Sgarbi, critico d’arte di mestiere e tuttologo dilettante, aveva sentenziato che la tomba di Alarico è una “leggenda”. Non so come facesse, quale contezza avesse del testo di Jordanes, ma, per i provinciali, ipse dixit, autòs epha. Oggi apprendiamo invece che lo stesso identico medesimo Sgarbi comincia a cambiare idea, e trova “interessante” quella che prima era “leggenda”. Beh, errare humanum est; e anche correggersi. Gli sarà apparso in sogno Jordanes? Ora che hanno ottenuto il consenso di Sgarbi, a Cosenza tirano fuori un’altra volta Himmler: un gerarca nazionalsocialista fa sempre il suo effetto; e poi, dopo i film di Indiana Jones… E giù con l’invenzione di “archeologi” parimenti “nazisti” che sarebbero venuti… La verità pare sia molto più terra terra: il gerarca tedesco si recò in Sicilia con la moglie, e, dopo aver trascorso lì una vacanza, sarebbe tornato a casa in auto, passando perciò da Cosenza, incuriosito. I Tedeschi, a dire il vero, non avevano bisogno di aspettare il Terzo Reich; non c’era manco il Primo, quando, nel 1820, il Platen scrisse i versi Das Grass im Busento, poi tradotti dal Carducci:

Cupi a notte canti suonanoDa Cosenza su ’l Busento,Cupo il fiume gli rimormoraDal suo gorgo sonnolento.Su e giù pe ’l fiume passanoE ripassano ombre lente:Alarico i Goti piangono,Il gran morto di lor gente… 

Mi spiace, niente romanzi gialli. Quanto alla veridicità o meno della notizia di Jordanes, essa è verosimile, ricordando riti di sepoltura solenne e tragica di re e altri grandi personaggi. Tutte le notizie storiografiche sono, per definizione, dubbie; e di molti fatti e nomi di tutte le storie abbiamo poche notizie, e sempre da confermare, magari con il supporto di fonti archeologiche. A questo proposito, dov’è che hanno letto, i dotti, che nel bottino di Roma ci sarebbero stati dei candelabri? Trattasi di bufala campata in aria. Come mi piacerebbe, se qualcuno si degnasse di parlare di Alarico e del suo grande rivale Stilicone; di Ataulfo; di Galla Placidia regina dei Goti e imperatrice dei Romani… Argomenti, mi pare, abbastanza ignoti. 

 

 

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Cosenza e il tesoro di Alarico

La memoria di Alarico è ciclica: passano decenni, e non se lo fila nessuno, poi tutti a parlare di lui come fosse un caro cugino o un ex compagno di scuola. Lo storico Jordanes, che forse dipende da Cassiodoro, narra di lui che saccheggiò Roma, ma senza offesa delle persone e dei luoghi sacri; e proseguì, saccheggiando ancora, fino ai Bruzi, l’attuale Calabria, con l’intento di passare in Africa. Una tempesta causò gravi danni alle sue navi, convincendolo a tornare indietro. Giunto a Cosenza, morì improvvisamente. I Goti, presi da gravissimo dolore, lo seppellirono con barbarica solennità: deviato il Busento, fecero scavare una grande fossa, seppellendovi il re con molti tesori. Usarono gli schiavi italiani, che subito uccisero perché si conservasse il segreto. Questo narra Jordanes. Per leggere con opportuno spirito critico il testo, occorrono alcune conoscenze che, da quello che sento in tv, non mi paiono proprio molto diffuse. Le esequie dei re e degli eroi sono, presso i popoli arcaici e barbari, particolarmente spettacolari e tragiche: e uso quest’ultima parola anche con riferimento al teatro greco. L’antichità ci ha lasciato più tombe che case: le piramidi, la tomba di Atreo, il Mausoleo di Alicarnasso… E fino agli editti napoleonici, applicati di fatto un secolo dopo, si seppelliva in chiesa, spesso con monumenti assai elaborati. Alcuni popoli barbari praticavano sacrifici umani, a volte volontari, per accompagnare la morte del re.  Lo stesso Achille sgozza dodici giovani troiani sulla pira di Patroclo; e sulla tomba di Caio Mario vennero uccisi dei senatori romani. Non è dunque strano che i Goti abbiano celebrato il funerale di Alarico con qualcosa di così violento e solenne. Sarebbe strano e incredibile il contrario, se si fossero adattati a seppellirlo come un morto qualunque. Chi, con illuministica supponenza, parla di “leggenda” non conosce il Vico né l’etnologia e l’antropologia. Alarico non era solo il re, era quello che aveva reso i Goti un’entità politica; che li aveva condotti in tutta Europa, in un magnifico continuo duello contro il grande Stilicone; e l’immagine di giovane guerriero era stata coronata dalla poetica contraddittoria vicenda d’amore per Galla Placidia, che poi regnerà sui Visigoti di Spagna e nuovamente sui Romani. Erano, i barbari, in grado di deviare un fiume? Lo fecero, nove secoli prima esatti, i Crotoniati contro Sibari! Scavarono i Persiani l’Athos… Dovevano solo fermare la corrente quanto bastava per scavare la fossa, i Goti. E, precisa Jordanes, avevano tante braccia a disposizione! Avevano tesori a iosa, anche per ornare la salma. L’inventario non ci è pervenuto, perciò non possiamo sapere, come invece ci viene ammannito per sicuro, se c’erano anche oggetti presi a Gerusalemme 340 anni prima, o in qualsiasi altro posto saccheggiato dai Romani a partire da Alba Longa. Non creiamo, questa volta è il caso di dirlo, facili leggende. Aspettiamo, se ci sarà, l’esito delle ricerche. Intanto la storia di Alarico potrebbe servire ad attirare l’attenzione sulla storia calabrese, di solito rigorosamente ignorata, e su quella di Cosenza in specie. Pensate a un film fatto come si deve; a del teatro degno di questo nome. Una curiosità: Cosenza porta male ai suoi conquistatori. Alessandro Molosso, zio del Magno, venne sconfitto e ucciso sull’Acheronte; Sesto Pompeo finì sconfitto da Ottaviano; Ibrahim, che aveva sconfitto gli ultimi bizantini a Taormina, morì nel 903 alle porte della città; Cola Tosto, ribelle a Ferrante I, fu messo atrocemente a morte. Andò meglio a Fabrizio Ruffo e poi a Garibaldi, che però passarono quasi dritti verso Napoli.

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