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Elezioni comunali, quel “potere” che logora chi ce l’ha

La tradizione politica dei paesi calabresi ha visto nei decenni passati la strenua lotta di sindaci condotta per conservare una postazione che, talvolta, faceva confondere i meno pratici con le dinamiche elettorali la persona fisica con il ruolo rivestito. Sono diversi gli esempi di capi di amministrazioni comunali che riuscivano a rimanere in sella per diversi lustri: non c’era ancora la regola dei due mandati e chi diventava primo cittadino, se sapeva scoprire e usare i “trucchi” del mestiere, manteneva l’incarico per più lustri. C’era una sorta di sete del potere che si autorigenerava: la stanchezza, se c’era, veniva ben mascherata, anche a se stessi. Gli avversari erano destinati a capitolare, perchè i pacchetti di voti venivano mantenuti con relativa facilità. Dare risposte concrete alla gente era, peraltro, una missione non impossibile e questo consentiva l’allungamento della “carriera”. Nel nuovo millennio le cose sono cambiate, perché dopo un certo numero (sempre minore) di anni si preferisce passare il testimone. È successo a Vibo Valentia con Nicola D’Agostino (centrodestra) che non si è riproposto, a Serra San Bruno con Raffaele Lo Iacono (centrosinistra) che, ancor prima dello scioglimento del consiglio comunale per effetto delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri, aveva annunciato che non avrebbe ripetuto l’esperienza, e succederà ancora in qualche piccolo centro delle zone interne del Vibonese. Quello del sindaco di Torre Ruggiero Giuseppe Pitaro, per più aspetti, sembra un caso a parte: gli interrogativi su una scelta adottata a sorpresa quando ormai il secondo mandato volgeva al termine si moltiplicano e le stesse spiegazioni del diretto interessato fanno pensare. In generale, si percepisce una certa insoddisfazione circa l’operato amministrativo: spesso chi non si ricandida sa già come andrà a finire. Soprattutto è cosciente del quoziente di difficoltà dei problemi, dei vincoli legislativi, delle ridotte disponibilità finanziarie, dell’incompatibilità e dell’irrealizzabilità delle pretese dei consiglieri, delle abitudini di chi lavora nella Pubblica amministrazione, delle richieste (in qualche occasione grottesche) dei cittadini. Ma anche dei pericoli a cui si va incontro: gli errori oggi si pagano cari e rischiano di compromettere il futuro proprio e della comunità amministrata. Senza contare i sacrifici compiuti che penalizzano la propria famiglia: il tempo per rimanere a casa si riduce fino a scomparire del tutto e i rapporti possono allentarsi. Quel potere prima tanto desiderato si trasforma così in un fardello da cui liberarsi. Ma questo non sempre è spiegabile a chi è assuefatto a quel conformismo che porta a chiedere senza poi esprimere gratitudine e a criticare a prescindere. Sono insomma mutati i tempi: c’è poco rispetto per le Istituzioni (che in verità non fanno molto per meritarselo) e per le persone in quanto tali, c’è molta arroganza e superficialità nel giudizio. Ma questa, forse, è anche una questione di carattere educativo.

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